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Delusionist

NATALINO BALASSO – MARTA DALLA VIA: Delusionist

Sabato 4 novembre al Teatro Goldoni di Venezia è andato in scena in prima nazionale Delusionist di Natalino Balasso e Marta Dalla Via.

Delusionist, ultima “fatica” (si fa per dire) di Balasso, affronta il palco principe del Teatro Stabile del Veneto e il pubblico della città lagunare (per l’occasione composto in gran parte da addetti ai lavori) ufficializzando un sodalizio nato e cresciuto durante le prove della Trilogia La Cativìssima (di cui sono stati realizzati i primi due episodi), quello con la brava regista e attrice Marta Dalla Via.

Autrice e interprete di spettacoli che non sono passati inosservati (Veneti Fair, Piccolo mondo alpino, La cinghiala di Jesolo, Mio figlio era come un padre per me hanno ottenuto anche importanti riconoscimenti), da alcuni anni Marta Dalla Via ci racconta con le armi che le sono proprie le tante contraddizioni di una regione come il Veneto considerata modello dell’economia italiana, dando vita a una satira sociale che non si ferma ai luoghi comuni, scavando oltre l’immagine patinata (e anche oltre la facile risata da cabaret alla Zelig e consimili). La sua capacità di creare maschere clownesche, di passare da un personaggio all’altro, caratterizzando ogni trasformazione con una mimica intensa che non si ferma alla superficie, è una dote che Balasso ha saputo cogliere e sfruttare con intelligenza.

Da Veneti Fair alla carrellata di audizioni per la campagna promozionale dell’incredibile farmaco che non fa dormire, che l’imprenditore veneto Vito Cosmaj e la sua iperefficiente segretaria Gioia Maina (leggi Mai-‘na Gioia) stanno lanciando sul mercato, il passo è breve (dal punto di vista della caricatura umana). Ed è breve anche a partire dalle boutade di Telebalasso (il canale video di Balasso sulla piattaforma youtube) e dall’irriverente epopea in stile Ubu Roi di Toni Sartana, sindaco di indole mafiosa di un piccolo paese della campagna veneta capace di ogni efferatezza nella sua personale scalata al potere politico ed economico per diventare, nel primo capitolo di Cativìssima, “assessore ai schei” (soldi, per i non veneti) ed entrare, nel secondo, nel Gotha mondiale dei “Magnaschei”.

Natalino Balasso e Marta Dalla Via si sono incontrati a metà strada. In comune hanno molto: sono due mattatori di prima scelta; condividono la lingua (una delle tante lingue che compongono l’italiano, come ama dire Balasso citando Pasolini) ed entrambi sottopongono il dialetto veneto a un lavoro di sfumatura, che senza smarrirne la veracità lo rende comprensibile a tutti gli italiani; il loro è un teatro innanzitutto popolare, “perché sono dell’idea che se vogliamo che a teatro ci vadano tutti dobbiamo anche riuscire a parlare a tutti, pur cercando di non essere mai scontati” (Natalino Balasso).

Marta Dalla Via attinge certamente alla popolarità del comico polesano (conquistata sul palcoscenico, prima che al cinema, alla tv e sul web), ma Natalino Balasso ha trovato pane per i suoi denti in questa “no stand-up comedy”, una commedia con attori in piedi come la definisce lui stesso. Delusionist va evidentemente molto più verso il teatro di quanto preveda il format dello spettacolo di cabaret made in Italy che riempie i teatri nazionali grazie ai comici della televisione.

Se i personaggi in campo possono suonare già visti nell’universo mondo di Balasso (l’imprenditore del nord-est di scarsa cultura e senza scrupoli che cerca in tutti i modi di tagliare i costi di produzione, sperimentando addirittura su se stesso il prodigioso farmaco, e la bella segretaria che gli dà man forte suggerendo escamotage al risparmio), se il tema dei medicinali e degli effetti collaterali che ne chiosano i bugiardini non sono certo una novità, la storia che ci viene raccontata è solo un pretesto e non un pretesto per far ridere e basta.

Delusionist è innanzitutto una grottesca rappresentazione del presente sottoposto alle leggi del mercato globale, che pretendono livelli di produttività e standard performativi sempre più elevati. In un contesto sociale ed economico come quello che stiamo vivendo, ogni pausa diventa inevitabilmente una perdita di tempo. La pillola salvavita (che avrebbe dovuto chiamarsi “the illusionist”, ma che per un errore dovuto all’ignoranza dell’inglese ha preso il nome di “delusionist”) intercetta proprio il bisogno di essere sempre presenti, privando l’uomo del sonno e condannandolo a un continuo stato di veglia. Ma il sonno è parte integrante del ritmo naturale della vita e togliendogli ogni funzione la vita reale cede il posto alla vita rappresentata, alla pura performance. La delusione, richiamata dal titolo, sta nel non poter umanamente sostenere questo stile di vita: è la stessa delusione di Achille “pié veloce” che non potrà mai raggiungere la tartaruga del famoso paradosso di Zenone, perché il movimento, come diceva Parmenide, è in fondo solo un’illusione.

La circolarità della piéce, che finisce esattamente là dov’è iniziata, ci racconta proprio l’impossibilità e l’inconsistenza di questo falso movimento. Ciò che prende vita davanti a noi è un carosello di maschere, una giostra che continua a girare su se stessa imprigionando nel movimento perpetuo gli stessi attori, chiamati in causa dai loro personaggi allo scopo di lanciare con successo la promozione del prodotto. Tre insegne luminose azionate all’occorrenza a scandire i diversi momenti dello spettacolo, come sottotitoli per non udenti, richiamano specifici processi di marketing: naming, brainstorming e storytelling. Sono tre fasi determinanti nella costruzione di una campagna pubblicitaria, ma lo sono anche nella costruzione di un’opera teatrale. Il cortocircuito è inevitabile.

Delusionist di Natalino Balasso e Marta Dalla Via è un appello al risveglio e allo stesso tempo un invito a sognare. Questo è in ultima analisi il discorso del bugiardino umano offerto all’inizio e alla fine dello spettacolo. Il palco è vuoto e ciò che non c’è diventa presente grazie anche al contributo dello spettatore, un contributo di sensibilità e immaginazione che nel teatro, ma anche nella vita, è e resta imprescindibile.

Nicola Candreva

Gli Omini

GLI OMINI: Petì Glassè ovvero la commedia umana 2.0

Sulla compagnia Gli Omini di Pistoia si è scritto molto e i consensi sono stati pressoché unanimi per una volta assolutamente meritati. Petì Glassè presentato al Teatro della Caduta è il loro ultimo lavoro, una sorta di varietà che raccoglie alcuni dei migliori personaggi incontrati nelle loro peregrinazioni anarco-sociologiche come amano chiamarle. Un best of o potremmo anche dire un catalogo o bestiario umano, una commedia umana all’inizio del terzo millennio. Personaggi soli, coppie, filosofi in erba alla bocciofila, amanti delusi: Gli Omini presentano un florilegio di figure umane che sfilano sul palco, un caleidoscopio che riporta alla vista il gran teatro del mondo di barocca memoria. E tra quei personaggi potremmo esserci pure noi. Non siamo per niente esclusi, anzi. Forse non siamo lì solo perché Gli Omini non ci hanno incontrato e intervistato.

Un mondo di picari che sopravvive alla vita, un’umanità non tanto grande miracolo quanto folle branco di pazzi che solo con l’illusione della civiltà può credersi essere superiore. Un’immagine divertente, tenera, ma anche molto triste dell’essere umano.

In Petì Glassè Gli Omini rispolverano lo splendore del teatro comico popolare che si è sempre ispirato alla gente comune per creare i suoi personaggi migliori. Pensiamo ad Aldo Fabrizi quando faceva il vetturino, o il Mario Cioni di Roberto Benigni, e infine Troisi che in molti dei suoi personaggi respirava la vita popolare dei vicoli di Napoli. L’azione de Gli Omini è certo più scientifica. Le loro indagini cercano con bramosia le storie di cui poi i loro spettacoli si nutrono, un’azione di ricerca quasi sociologica. Una raccolta sul campo di frasi, discorsi che vengono annotati e poi diventano dramma, ma il fondo del loro agire scenico è il gran teatro popolare che del mondo ha fatto sempre luogo elettivo per cogliere i propri personaggi.

Ottima anche la qualità della recitazione de Gli Omini (che sono lo ricordiamo Francesco rotelli, Francesca Santeanesi, Luca Zacchini e Giulia Zacchini). Fresca, non libresca, né muffita oralità da teatro stabile. La lingua vera e popolare, la cadenza, l’accento, il vernacolo, il dialetto. Certo ogni tanto in questo navigar tra le lingue qualche volta si cade, come l’accento cremasco che diventa quasi veneto, ma in fondo non è questo che conta, è il colore della vita vera, delle persone che ci circondano e con noi fanno parte di questa tragicommedia infinita che è la vita.

Milo Rau

FIVE EASY PIECES di Milo Rau

Five easy pieces di Milo Rau, ieri in scena alla Teatro dell’Arte della Triennale di Milano, è opera tra le più complesse perché pone l’osservatore nelle condizioni di dover affrontare molti livelli di lettura venendo investiti da questioni scomode di fronte alle quali è difficile non prendere posizione. Inoltre, dato l’argomento (la storia del pedofilo belga Marc Dutruox) e il fatto che a raccontarlo siano dei bambini, non può che colpire e far sorgere domande cui è diffile se non impossibile rispondere.

È assolutamente necessario rendere evidenti le varie questioni che pone Milo Rau con Five easy pieces prima di procedere a una recensione. Iniziamo con ordine. Innanzitutto la vita di Marc Dutroux che ha segnato la storia recente del Belgio in maniera indelebile, diventando una sorta di mito nazionale negativo. La vicenda di Dutroux è diversa da quella di qualsiasi altro pedofilo/serial killer proprio per aver scosso un’intera nazione ponendola di fronte a se stessa con una forza senza precedenti. Il fatto che Dutroux abbia potuto operare così a lungo proprio a causa delle divisioni interne al paese (rapiva le ragazze nelle Fiandre e le segregava in Vallonia rendendosi sicuro e quasi intoccabile come se passasse un confine); le accuse di incompetenza alla polizia, inefficiente a causa proprio di queste divisioni; l’evidenza che la storia familiare di Dutroux sormonti alcuni dei passaggi critici della storia nazionale belga (l’indipendenza del Congo nel 1960 dove la famiglia Dutroux viveva, l’azione del mostro a Marcinelle, zona mineraria tristemente nota a noi italiani, le differenze linguistico nazionali etc.), tutto questo fa sì che l’affaire Dutroux abbia un impatto assolutamente unico rispetto a vicende simili e abbia scosso una nazione ridefinendo l’immagine che aveva di se stessa.

Questo è un primo livello di lettura: la vita di Dutroux come catalizzatore di profonde inquietudini e divisioni nazionali, l’essere un mito demonico di un intero paese tutt’ora diviso, e teso a rimuovere un passato di violenze coloniali terribili (non dimentichiamo che il genocidio in Ruanda dipende per molti fattori dalla politica coloniale belga che divise Tutzi e Hutu creando odio insanabile tra le due etnie).

C’è poi l’evidenza che a raccontare la storia del Mostro di Marcinelle siano i bambini. Sono loro che rimettono in scena la vicenda in cinque piccole piece. I bambini inscenano la storia di uno dei peggiori pedofili della storia europea, che seppellì viva una sua vittima, un’altra la fece morire di fame e le altre schiavizzò, torturò e stuprò. È giusto? Potremmo chiederci. È eticamente corretto? Quali le conseguenze per questi piccoli attori? È sfruttamento? È anche questa una forma di violenza? Tutte domande legittime. E il fatto che la produzione e le prove siano state seguite da psicologi e dai genitori dimostra che un pericolo c’era, che se ne era consapevoli, che si è cercata una forma di protezione e che si è deciso che il rischio doveva essere corso.

In Five easy pieces di Milo Rau i bambini non fanno ciò che solitamente ci si aspetta da loro all’interno di uno spettacolo teatrale. Certo recitano ma si interrogano e ci interrogano su una vicenda mostruosa, sulla morte, sulla violenza, sulla natura del male e ci fanno comprendere che loro capiscono e percepiscono più di quello che si crede. La loro innocenza è meno ovvia di quanto si pensi (nello spettacolo si chiede loro se hanno mai ucciso e le risposte sono inquietanti, rilevano un certo fascino della e nella violenza che appartiene all’umano fin dalla più tenera età, come il gusto di incendiare formiche e vespe, o l’uccisione di un gattino per sbaglio che però fa nascere una sensazione strana di potenza). Il teatro è crudele. Lo si dice senza mezzi termini come risposta alla domanda di un bambino. Il teatro non è giusto perché non è il suo compito. È Teatron, è il luogo da cui si guarda e se quello che si guarda non piace non è colpa del teatro.

Infine Milo Rau si interroga sulla rappresentazione in sé, sui suoi scopi, sulla sua necessità. Quando i bambini si chiedono: cosa significa recitare? O quando viene loro chiesto: cosa saresti disposto a fare per il teatro? O come affronti il fatto di essere guardato? Di fatto ci si chiede cosa sia la rappresentazione, a cosa serva, come ci relazioniamo con questa finzione che rivela la verità.

Molti sono dunque i livelli di lettura che si declinano in maniera diversa a seconda del pubblico, della nazione, del luogo in cui avviene la rappresentazione. Un’operazione così complessa che si interroga sulla natura perversa dell’umano agire non può che essere scomoda, difficile, ostica, emotivamente provante, graffiante e non solo perché l’apparente sicurezza di questi bambini sul palco rivela una sconcertante fragilità del concetto in sé. La sicurezza tanto invocata dalle nostre società occidentali è una maschera, una falsità perché in ogni momento l’orrore può toccarci e colpirci, e questa prossimità con il male diventa assolutamente insopportabile se a renderla evidente sono dei bambini.

Five easy pieces sono cinque momenti della vicenda Dutroux: il padre dell’assassino che vorrebbe cambiare nome, che vive solitario e negletto per i peccati del figlio e che racconta del Congo, dei primi anni in Africa, di Lumumba di cui vorrebbe acquisire il nome per abbandonare quello detestato di Dutroux; il poliziotto che ha svolto le indagini, che racconta di come la polizia fosse detestata dalla popolazione, di come in quei giorni girare in divisa fosse pericoloso; dei genitori che attendono una telefonata e che vengono messi al corrente dell’orribile morte della figlia; della vittima che recita una sua lettera durante la prigionia; infine il funerale di una delle vittime. In scena la simulazione dei bambini che inscenano gli eventi inframmezzata dalle domande che essi si pongono e che vengono a loro poste. In video il doppio identico simulato dagli adulti.

In Five easy pieces i momenti di pathos, di commozione intensa e perfino di disagio sono innumerevoli (il passaggio in cui l’attore in scena chiede alla bambina di spogliarsi per affrontare la scena della vittima invoca tutta la perversione di un atto pedofilo, rende evidente il potere di costrizione/persuasione di questi soggetti, nonché mette il pubblico nella spiacevole posizione di osservatore di un atto potenzialmente scellerato).

I bambini non solo rappresentano il dolore che gli appartiene, ma si rendono interpreti anche di quello degli adulti e questo è sconcertante. Le parole colme di angoscia e sofferenza di un genitore che ha perso un figlio diventano devastanti se recitate da un bambino.

Five easy pieces dimostra una volta di più la capacità di Milo Rau di interrogare la società europea su quanto avviene al suo interno: Milo Rau affronta la realtà, la cronaca degli ultimi anni e ogni volta fa discutere e divide critica e pubblico. Che sia la vicenda di Brejvick, che sia la morte di Ceausescu, o il processo alle Pussy Riot, o il genocidio in Ruanda, ogni volta ci obbliga a fare i conti con noi stessi, a prendere posizione, ci invita a togliere il velo che continuiamo a calare sulla natura della nostra civiltà. Vogliamo crederci buoni, giusti e non lo siamo e dobbiamo necessariamente confrontarci con questa natura ipocrita che ci appartiene. Brejvick o Dutroux sono parte di noi, sono mostri partoriti da ciò che siamo come società, sono eruzioni vulcaniche che portano alla luce il magma che teniamo nascosto sotto la crosta di illusione di essere migliori e diversi.

Quello di Milo Rau è un teatro scomodo che possiede una grande potenza eversiva, ed è un teatro politico che obbliga ad affrontare la realtà. E’ uno sguardo lucido e tagliente come un bisturi. Si può essere d’accordo o meno con gli strumenti che utilizza ma non si può negare la necessità e l’utilità di questo teatro.

Ph: ©PhileDeprez

Marco Bianchini

1:6000 di Marco Bianchini

Uno su seimila. L’unico contro i molti. L’unicità che fronteggia spavalda, seppur un poco intimorita, lo sciame. Il titolo dell’ultimo lavoro di Marco Bianchini è una proporzione e una dichiarazione. I numeri sono impietosi, nella loro algida evidenza manifestano uno stato di fatto: uno contro tutti. L’uno diventa lo zero virgola, si fa piccolissimo pur restando origine del mucchio selvaggio. L’uno è il seme, è l’unità base, è il solitario, è il mago dei tarocchi, il possessore di sé, colui che usa la ragione per piegare gli eventi alla sua volontà, è colui che sa usare il mondo a proprio vantaggio, ma è anche la goccia contrapposta alla vastità del mare, la goccia che rischia di sparire, di essere annullata di fronte all’enormità abissale della moltitudine.

L’uno è Arjuna che fronteggia l’esercito dei suoi fratelli, affiancato sul carro da Krishna, l’auriga che guida i cavalli e rende possibile il pieno possesso di sé.

1:6000 di Marco Bianchini è il racconto surreale ma non troppo di una battaglia, quella di chi, diverso in qualsiasi forma, si trova a ergersi, spesso suo malgrado, contro la massa uniforme dei conformi. Una narrazione che par divagare, che procede tortuosa, a salti e balzi, raccontando frammenti che si ricompongono come un mosaico: un libro fantastico e mai esistito che segna lo spartiacque dell’evoluzione culturale (Le avventure del gattino Cicci), la presentazione del distretto economico dell’Alto Vicentino, un manga giapponese (Il Grande sogno di Maya di Sozue Miuchi), e il racconto autobiografico di un’infanzia e un’adolescenza alla ricerca di strategie di integrazione per difendersi dal bullismo. Questi gli elementi mescolati in un racconto superflat dove alto e basso, reale e immaginario, si intrecciano in un linguaggio ironico e divertente ma mai banale.

1:6000 di Marco Bianchini è un canto della diversità che si adatta alla necessaria ma complicata convivenza con la conformità. Poco importa di che natura sia la diversità, se sessuale, esistenziale, professionale, di colore o di partito, importano le strategie che essa mette in campo, non tanto per adattarsi, ma per sopravvivere, per esistere e sussistere. Con pochi elementi e una verve narrativa stimolante si affrontano i pregiudizi, le sofferenze, le umiliazioni, le lotte dell’uno, di qualsiasi uno, per affrontare i seimila sempre pronti a puntare il dito.

1:6000 di Marco Bianchini si inserisce in un filone di opere che negli ultimi tempi interrogano la scena e la comunità che la frequenta. Da MDLSX di Silvia Calderoni, a Todi is a small town in the center of Italy e Un eschimese in Amazzonia di Livia Ferracchiati, – opere queste decisamente più orientate verso la diversità sessuale, tema presente anche nel lavoro di Bianchini -, la scena si interroga sempre più sulla questione dell’accettazione delle eccezioni, sul loro inserimento nel mondo della conformità con pari diritti e dignità di esistenza. In una civiltà che a torto si crede evoluta, civile e libera ci si dimentica troppo spesso che in fondo siamo animali che ancora applicano, fin dalla più tenera età, la legge del branco. Non saremo mai veramente evoluti se non impareremo ad accettare l’eccezione e la ricchezza che porta con sé. Non potremo mai dirci veramente progrediti se non la smetteremo di contrapporre i molti ai pochi, la massa ai solitari, i conformi ai diversi. La convinzione di essere civili è la più falsa maschera che indossiamo. È ora di toglierla e di affrontare la nostra più grande miseria.

1:6000 di Marco Bianchini apre la tredicesima stagione del Teatro della Caduta di Torino. Un programma variegato e interessante con sei prime regionali e due prime assolute in cui spiccano Peti’ Glasse’ de Gli Omini, Finale di Partita di Teatrino Giullare e Lourdes di Andrea Cosentino. Una programmazione che rimarca, qualora ce ne fosse bisogno, l’affermazione di una realtà sempre più importante e vitale nella vita culturale della città di Torino, e che fin dalle sue origini nel 2003 si è dimostrata luogo aperto e accogliente delle più diverse forme di ricerca scenica.

Guerrilla

GUERRILLA di El Conde de Torrefiel

Guerrilla, così come le altre pièce de Il Conde de Torrefiel, appaiono sotto la stella del contrasto. La forte dissonanza tra testo e immagine è stridente come l’urto tra due zolle tettoniche. Quello che risulta da questo scontro è uno schiaffo, un pugno allo spettatore. Non c’è nessuna indulgenza. Una durezza adamantina che ferisce, come lo può essere solo una cosa vera, seppur immaginata. E questo contrasto si palesa tra la violenza del racconto e la serenità, tranquillità delle immagini.

Ieri sera come anteprima del Danae Festival di Milano, al Teatro dell’Arte della Triennale è andato in scena Guerrilla. Il pubblico si siede, chiacchiera, c’è che si riconosce e si saluta calorosamente. Sul palco delle sedie rivolte verso la sala. Ecco che inizia lo spettacolo e la sala si fa silenziosa. Sul palco invece si replica la quanto avvenuto in platea. Ecco che le sedie si riempiono di gente che guarda verso noi pubblico, il palco si riempie, la gente chiacchiera del più e del meno, si accomoda sulle sedie, legge un programma. Dov’è lo spettacolo? Dov’è la verità?

E intanto scorrono le frasi proiettate che ci portano in un futuro prossimo venturo. A qualcosa che inizia nel 2019 e che si protrae verso la guerra mondiale del 2023. Ma se l’ambientazione di queste storie è in questo futuro possibile, le persone di cui si parla sono quelle sedute di fronte a noi. La ragazza con la canottiera gialla, il musicista con la maglietta verde. Sono le persone che hanno partecipato alla costruzione della pièce tramite call pubblica effettuata nell’estate. Il luogo è la città di Milano. Siamo immersi in un misto di reale e immaginario, così come la proiezione futura parla di questo presente. Questo è l’incipit.

Tre le situazioni in cui ci si trova: una conferenza di Angelica Liddell che in spagnolo parla di scena, del ruolo del teatro, del corpo tragico dell’uomo. E intanto scorrono le biografie di alcune delle persone sedute di fronte a noi. Si abbassa il sipario. Scena numero due: una lezione di Tai Chi. Sulla scena delle donne compiono gli esercizi con soave e concentrata tranquillità. Una musica per pianoforte accompagna il loro movimento. Intanto scorrono i testi feroci in cui queste biografie immaginarie si trovano ad operare in un futuro possibile e non lontano. Il tema è sempre la guerra, la violenza dell’economia, del convivere, della civiltà. Sipario e terza scena: Siamo in una discoteca. Persone ballano forsennate sotto una luce rossa, poi verde e infine strobo. La musica è assordante. E continuano a scorrere le frasi secche e taglienti come un bisturi.

Le domande ricorrente sono: come possiamo pensare che non si scateni una guerra se i nostri pensieri sono sempre rivolti ad essa? Questa pace che sempre invochiamo, la sicurezza che viene sempre e costantemente evocata, è forse un’inconsapevole richiesta di guerra? La natura umana è violenta? E se sì, la pace è un aspetto che riguarda la civiltà e non la natura e quindi ci è estranea? Domande terribili. A cui spesso non vogliamo rispondere. Vogliamo dimenticare che l’essere umano, non nato predatore ma preda, si è trasformato per imitazione in rapace cacciatore. Scontiamo questa nascita volontaria al sangue. Abbiamo scelto di essere assassini. E gli antichi lo sapevano bene. Sia i Veda che i Greci erano consci di questo fatale passaggio evolutivo.

E alla luce di queste domande, si definisce anche la natura della prossima guerra immaginata. Una guerra non ideologica né politica né religiosa. Un antagonismo armato per difendere solo gli interessi economici delle proprie nazioni. Un conflitto che i posteri chiameranno: la guerra onesta. Questa è la fine.

Uno spettacolo intenso, violento, per certi versi terribile. Lo specchio che si forma all’inizio di Guerrilla non riflette un’immagine edificante. Come il quadro di Dorian Gray, l’immagine riflessa cattura tutti i nostri peccati e ci dona una figura deforme e orribile. Non si scappa, tocca volgere gli occhi a questa fotografia impietosa.

In Guerrilla de il Conde de Torrefiel, così come nei testi di Thomas Ligotti, non c’è nessuna fiducia nell’umanità e nel suo futuro. La catastrofe è dietro l’angolo. Il nostro destino è funesto e funereo. Nessuna speranza all’orizzonte.

Forse questo è l’unico difetto di uno spettacolo potente e ben costruito: non c’è spazio per nient’altro che il male. Non c’è niente oltre l’abisso. Nessun volo verticale, solo caduta senza fine. E per fortuna il mondo, benché ferito da mali infiniti, conserva in piccola parte anche semi di speranza. Pochi è vero. Ma presenti. E non notarli, non farli trasparire, dona un’immagine monodimensionale, parziale. C’è una sorta di voluttà del male, un voler vedere solo quell’aspetto. E questa parzialità, che ho riscontrato anche nei lavori precedenti a Guerrilla (La possibilidad que desaparece frente al paesaje del 2015 e la versione precedente di Guerrilla presentata sempre nel 2015 al festival TNT di Terrassa Barcelona), alla fine stanca, fiacca lo sguardo. Non sto parlando di lieto finale, e nemmeno di favole consolatorie, ma di un mondo tridimensionale che come diceva Calvino veda nell’inferno ciò che inferno non è, e gli dia luce e gli dia spazio.

Archivio Zeta

ARCHIVIO ZETA: Il Minotauro, nel labirinto di Julio Cortázar

Con lo spettacolo Il Minotauro, in cammino lungo il Cimitero Germanico del Passo della Futa fino al venti di agosto, la Compagnia Archivio Zeta tenta come da annuale tradizione di ridestare le voci nascoste di un luogo votato al silenzio e alla memoria per trascinarlo dentro allo spazio del mito: e lo fa sfruttando il testo Los Reyes dell’argentino Cortázar, del 1949.

Il Cimitero Germanico è un luogo che già di per sé parla e racconta una storia: non fosse altro che per la sua organizzazione “piramidale”, che invita lo sguardo a spaziare seguendo un percorso, partendo dalle colline circostanti dall’indiscutibile suggestività, per arrivare al suo culmine architettonico centrale, una struttura obliquamente angolare che punta verso l’alto. Il pubblico è invitato a seguire la cinta in pietra alla base per arrivare a una delle piattaforme circolari in legno che si ripetono all’interno del Cimitero, nella prima della quale troviamo il re greco Minosse: proteso verso quella stessa struttura, prigione del mostro mitologico dalla testa taurina, il re lamenta con accenti più che caricati la presenza viva e assente, ominosa quanto invisibile, del figlio della colpa, di quel “silenzio in agguato”.

Il testo di Cortázar è presentato integralmente, senza particolari variazioni; si passa successivamente al confronto fra il re di Cnosso e la figlia Arianna, separati da una lamina in metallo arrugginito che all’occorrenza viene utilizzata per produrre sonorità distorte – la presenza della musica a sottolineatura di un testo già di per sé denso di significazione sarà tratto costante di tutto il percorso – che ne impedisce la reciproca visione diretta; lungo il rettilineo delle scale centrali che conducono verso il virtuale ingresso del labirinto viene presentato l’eroe Teseo (che con molte parole ci informa della sua natura di “eroe dalle poche parole”); ci si volta di nuovo verso le colline per ritrovare Arianna e il suo mitologico gomitolo, seguendo lo sguardo dell’eroe; si accede finalmente al centro del “labirinto” per lo scontro finale, che non vediamo ma udiamo, in accordo filologicamente pedissequo con la tradizione, e il “poema drammatico” cortazariano viene chiuso con le ultime parole del Minotauro, “signore dei giochi” finalmente visibile agli occhi del pubblico.

C’è decisamente poco lasciato all’immaginazione nel lavoro dell’Archivio Zeta: la stessa volontà di mutare il titolo originale è segnale di un’attenzione che la compagnia ripone in un soggetto già molto chiaro nello stesso dipanarsi dell’azione verbale – del resto, nel ’49 le influenze cortazariane erano eredi non solo di uno studio della tradizione classica e debitrici del lavoro poetico di Keats, ma anche delle riscritture di André Gide, dunque di un teatro che ancora si puntella sulla sola parola, separato alla nascita da una vita scenica propriamente intesa. E c’è qualcosa che si perde, a livello di un nucleo teatrale più intenso: la Compagnia Archivio Zeta prova ad agire visivamente a livello geometrico, nel confronto fra le figure che si contrappongono sempre in maniera simmetrica, e utilizza lo spazio cimiteriale in maniera sapientemente scientifica. A partire da questo, la maestria sta nella creazione di immagini fortemente suggestive, come nel caso dello sguardo ad Arianna lanciato da Teseo con la luce del tramonto esattamente alle loro spalle, o nel finale, con la immobilità delle figure appoggiate al muro di pietra mentre al centro la voce del Minotauro-bambina lascia il suo “testamento” dall’interno di una struttura a maglie di metallo che la ingabbiano. Complici però proprio questa razionalizzazione estrema dei pochi movimenti che si sono voluti attaccare a un testo non propriamente scenico e non propriamente mitico (e non si dimentichi che l’argentino pubblica “I Re” solo due anni dopo la più famosa “Casa di Asterione” del contemporaneo Jorge Luis Borges, le esigenze del mito virano con lo scorrere dei tempi) unita a una scelta interpretativa dai toni decisamente carichi, rimane qualche perplessità rispetto a che grado effettivo di eloquenza rimanga a questo Minotauro: forse troppo poca poiché troppa, nel voler rispondere “con la parola all’opera della parola”.

Quella di sprigionare il genius loci è una necessità che il teatro non ha mai ignorato, e che anzi specie nelle sue manifestazioni di comunità persegue con vigore, come è auspicabile nella volontà di dare rilievo sempre al contesto in maniera concomitante al testo. Ma quest’ultimo, e qui sorgono le domande che daranno direzioni future, in che modo può essere più efficacemente avvicinato?

L’Archivio Zeta dimostra una mai scontata attenzione nella scelta del materiale drammaturgico da affrontare e da attraversare, e in questo caso ci troviamo di fronte a un lirismo estremo, a necessità profonde ma, allo stesso tempo, espresse attraverso modalità profondamente testuali: tratto distintivo della Compagnia, indubbiamente, e scelta di lavoro. Nello spazio del palcoscenico però, in special modo se questo è già, in sé, memoria, il dubbio è se tale tipo di attenzione non rischi per contro di cadere in archeologia cieca, lasciando in ombra un mostro, un Minotauro, nascosto più in profondità che ancora cerca una strada per uscire.

Maria D’Ugo

Anna-Sophie Mahler

TRISTAN ODER ISOLDE. EIN PASTICHE di Anna-Sophie Mahler

Nasce come operazione di salvataggio dal macero di una parte della scenografia realizzata da Anna Viebrock per l’allestimento del Tristan und Isolde di Christoph Marthaler, andato in scena per otto anni (dal 2005) al festival di Bayreuth, questo Tristan oder Isolde. Ein pastiche di Anna-Sophie Mahler, giovane regista tedesca di nascita e formazione, ma svizzera di adozione, che di Marthaler è stata assistente alla regia e per sei anni unica responsabile delle riprese. Quello che Anna-Sophie Mahler ci presenta alla Biennale Teatro di Venezia è uno spettacolo che smantella letteralmente l’opera di Wagner (e di conseguenza la regia di Marthaler, diventata ormai un cult, a cui si allude in continuazione, ma senza che ne diventi imprescindibile la conoscenza), decostruendone la struttura narrativa e musicale fino a mandare in pezzi il mito stesso dell’amore romantico.

All’ingresso in sala gli spettatori vengono accolti dagli elementi della scenografia di Bayreuth salvati dalla distruzione e disposti ordinatamente sul palco, allineati come reperti archeologici, mentre un video in loop ne racconta per sequenze il processo di smantellamento. Lo spazio scenico frammentato è già sintesi di quanto accadrà per i successivi 80 minuti: quasi nulla, in fondo, perché la storia non decolla mai (ma non si potrebbe dire lo stesso del Tristano e Isotta wagneriano?), se non fosse che ciò che davvero conta è la struttura di questo “pastiche” che miscela l’opera di Wagner e la sua vita, la regia del Tristano e Isotta di Marthaler e il suo metodo di lavoro, la vita professionale di Anna-Sophie Mahler e la vita di tutti i giorni in un cocktail schizofrenico che ubriaca il pubblico. Tutto rientra in una partitura che sembra uscita da un frullatore lasciato sbadatamente aperto e invece ha la precisione di un orologio svizzero con una meccanica tedesca.

Gli attori cambiano continuamente pelle, spostano e riassemblano gli elementi scenici e ogni mutazione getta i presupposti per quella successiva in un percorso che si sviluppa per associazioni: un flusso di coscienza che rivela una totale dipendenza da sindrome di Stoccolma teatrale; un processo catartico, armato di un raffinato gusto per la parodia, che investe la platea e diventa catarsi collettiva (almeno per un pubblico colto). Le digressioni tecnico musicali sui leitmotiv giocano un ruolo chiave tanto quanto nell’opera di Wagner: è l’accordo di Tristano (o tema del Desiderio che dir si voglia) che apre le danze, così come fa nel preludio del Tristano e Isotta, ed è il Liebestod (tema d’amore-morte) suonato dal vivo su un autentico pianoforte a coda, spinto in scena dallo stesso pianista, a mettere la parola fine a questo viaggio paradossale che si consuma tra i resti della nave (Marthaler ambienta l’intera vicenda sulla nave al cui timone Tristano conduce Isotta da re Marke nel primo atto dell’opera wagneriana) restituiti alla vita dopo il naufragio di Bayreuth, una nave che non è destinata ad attraccare in alcun porto. Sedie a sdraio, pareti, parti del pavimento in parquet, un divano ad angolo sono tessere di un puzzle molto più ampio della scenografia originale, un puzzle che resta volutamente incompleto, irrealizzato e irrealizzabile come l’amore impossibile se non nella morte di Tristano e Isotta.

Anna-Sophie Mahler non si ferma qui, perché il processo di decostruzione investe anche il tema dell’amore romantico in relazione all’oggi. Che influenza può avere nella nostra vita (in cui ogni cosa ha un valore di mercato) una storia d’amore come questa? E’ davvero possibile fondersi in un unico essere, non più uomo né donna? Che funzione ha lo sguardo nell’innamoramento? E, dulcis in fundo, cosa sarebbe successo se Tristano non fosse morto? Probabilmente sarebbe diventato un nuovo re Marke, si risponde la Mahler, a sua volta tradito da un novello Tristano, in un continuo gioco di specchi che ben rappresenta la società odierna. Ce li possiamo immaginare Tristano e Isotta al cinquantesimo anniversario di matrimonio?

Rubens Tedeschi, decano dei critici musicali scomparso nel 2015, definì la musica del Tristano e Isotta come “una sorta di ondeggiamento perpetuo simile al movimento del mare”. È esattamente ciò che fa Anna-Sophie Mahler nel suo Tristan oder Isolde, uno spettacolo in continuo movimento che tra onde e risacca porta verso riva e risucchia ogni cosa.

Nicola Candreva

Ph: Donata Ettlin

Stabat mater

STABAT MATER di Livia Ferracchiati

Lo spettacolo di Livia Ferracchiati, Stabat Mater; andato in scena alla Biennale Teatro di Venezia, forte della conquista del Premio Hystrio Scritture di Scena 2017, delude le mie aspettative (in controtendenza agli applausi tributati dal pubblico).

Non c’è dubbio che Livia Ferracchiati abbia lavorato a lungo sul testo (lei stessa parla di una raccolta di materiali durata due anni) e che abbia sviluppato un proprio linguaggio (Todi is a small town in the center of Italy e Peter Pan guarda sotto le gonne lo avevano ben dimostrato, quest’ultimo con una consapevolezza già matura), ma qui non riesce proprio a convincermi. Ciò non dipende dalle incertezze nella recitazione degli interpreti (più fastidiose che nei lavori precedenti, dove pur presenti non allentavano l’attenzione del pubblico), ma dalla prolissità verbale (che mette a dura prova l’attore e nel contempo lo spettatore) e da una esplicitazione che toglie vigore ai contenuti.

La scena su cui si muovono i tre protagonisti della storia (Andrea, un “Peter Pan guarda sotto le gonne” ormai anagraficamente adulto che lotta per l’affermazione di sé nella vita, nel lavoro e nella propria identità di genere, la fidanzata e la psicanalista con le quali intesse pian piano un vero e proprio ménage à trois) ricostruisce con elementi reali gli ambienti del racconto: c’è il divano di casa, la poltroncina dello studio della psicanalista, i sedili dell’auto testimoni di incontri furtivi, il tavolo della cucina e persino lo stendino della biancheria a servizio dei cambi-costume a vista. Il quarto personaggio, una madre apprensiva e soffocante (bravissima Laura Marinoni nel ruolo cardine di cordone ombelicale mai reciso), appare solo in video e il suo volto sovrasta costantemente la scena in un fermoimmagine che si anima durante le frequenti telefonate, uno sguardo sempre presente nella vita di Andrea anche nell’assenza fisica. Sono questi i soggetti della terapia di gruppo che prende vita davanti a noi, dove un triangolo amoroso con quarto incomodo testimonia la via crucis del difficile passaggio all’età adulta, a un’indipendenza resa oltremodo complicata dalle forme femminili (sempre celate una volta compiuta la vestizione iniziale) che contraddicono l’identità del protagonista.

Andrea è uno scrittore di autocelebrata intelligenza, erotomane e logorroico, che affronta la propria incompiutezza con la costante necessità di rivendicare il proprio vigore sessuale (sebbene non abbia maturato fino in fondo la decisione di compiere la transizione chirurgica da donna a uomo e forse non lo farà mai) e con una verbosità ossessiva che non permette un vero confronto a viso aperto con l’altro, che sia la psicologa, la fidanzata o la madre. La volontà degli altri (della madre che vorrebbe controllare la sua vita, della fidanzata che vorrebbe essere madre e della psicanalista, a sua volta madre, che cerca di portare a buon fine la terapia) viene costantemente annichilita da un fiume di parole in piena che annega anche il pubblico.

La compresenza dei personaggi e il ricorso al flashback che spezza lo sviluppo cronologico della narrazione restiuiscono l’immagine di un percorso terapeutico che mette a soqquadro la scena indagando ogni aspetto della vita di Andrea (privilegiando con una certa insistenza quelli più ordinari e prosaici, a sottolineare le analogie con una generazione, quella dei trentenni di oggi, che annaspa invischiata in un pantano non così dissimile), un’analisi prima di tutto interiore, data la centralità del protagonista, che non trova delle risposte.

Livia Ferracchiati in Stabat Mater (il titolo, che fa riferimento alla sequenza della liturgia cattolica che medita sulle sofferenze della Vergine Maria durante la crocifissione, mi pare più provocatorio che foriero di significati) ci dipinge un Woody Allen transgender (dichiararlo nello spettacolo è davvero troppo ridondante) inserito in un contesto sociale e generazionale a lei familiare, data la sua giovane età.

Tutto viene esplicitato in questo lavoro della Ferracchiati, compreso il pene fasullo di silicone, senza assegnare alcun compito allo spettatore tranne quello di annoiarsi e di uscirne con un senso di sazietà che si avvicina un po’ troppo all’indigestione.

Nicola Candreva

Livia Ferracchiati

TODI IS A SMALL TOWN IN THE CENTER OF ITALY di Livia Ferracchiati

È un “confronto all’americana” quello che ci presenta Livia Ferracchiati in Todi is a small town in the center of Italy, sottoponendo i quattro attori in scena all’esame visivo del pubblico. La distanza tra la scena e la platea sembra una distanza di sicurezza, ma se il testimone di un crimine si trova al riparo dietro i classici vetri oscurati di un commissariato di polizia, qui il testimone diventa il vero oggetto dell’identikit: il testimone si guarda allo specchio. Questa è l’operazione compiuta dalla Ferracchiati a nostra insaputa, a tradimento per così dire.

Caroline, Michele, Elisa e Stella, un gruppo di amici che si frequentano fin da bambini, sono in fila a fondo scena e alle loro spalle un fondale stampato restituisce l’immagine di un mosaico senza colori, o forse di uno specchio che si sta crepando ed è sul punto di andare in pezzi. La luce che li inonda è violenta, fa pensare alla stanza di un interrogatorio più che al set dove si sta girando un documentario su Todi e i suoi abitanti.

Sì, perché i quattro amici sono un piccolo campione di oltre un centinaio di studenti intervistati su temi che vanno da come si vive in un piccolo paese dove tutti si conoscono, a cosa sia meglio non fare per evitare la condanna dell’opinione pubblica.

La città umbra di Todi è lo scenario in cui agiscono i nostri personaggi, che si muovono idealmente per quei luoghi di aggregazione sociale che sono sempre gli stessi da generazioni, come la storica gelateria Pianegiani, le gradinate del Teatro Comunale o il pub “L’olandese volante”. Ognuno di questi luoghi rappresenta la piazza con tutto ciò che ne comporta, non escluso il “mettersi in piazza” e, per estensione, sottoporsi al giudizio.

I dialoghi tra i soggetti dell’intervista a cui stiamo assistendo in diretta sono il risultato di un grande lavoro di rielaborazione di un vasto materiale documentario che è parte integrante dello spettacolo (già all’ingresso in sala il pubblico è accolto da estratti delle interviste agli abitanti di Todi, trasmessi su un piccolo schermo tv posto a lato della ribalta, poi i video vengono sovrapposti alla scena con un montaggio tra finzione e realtà che è l’ossatura dell’opera). Ma il processo di rielaborazione non si ferma qui, perché condiziona anche il lavoro sul linguaggio, ottenendo una parlata dialettale che non è solo la la lingua di Todi, è una lingua reinventata che diventa la lingua di tutti, proiettando la dimensione locale della provincia in una dimensione nazionale. Ciò che si osserva a Todi è emblematico di quanto accade nella provincia italiana tout court, come il titolo stesso dello spettacolo sottolinea ponendo l’accento sulla posizione geografica: quell’essere “in the center of Italy” rivela da subito l’utilizzo della sineddoche.

Un gioco di specchi questo lavoro di Livia Ferracchiati che va a focalizzare i comportamenti, le abitudini e le dinamiche di una realtà congelata come quella di una piccola città di provincia (ma può valere anche per un quartiere) dove non succede mai niente di nuovo, ed è un’immobilità che inquieta, e dove tutti sanno tutto di tutti, tanto che ci si guarda bene dal parlare di sè anche di fronte al migliore amico. La paura di svelarsi troppo, di essere giudicati offrendo a sguardi sempre indiscreti un punto debole, un segreto o la propria stessa individualità si confronta da un lato con l’amore per la propria città (“Il 100% degli intervistati pensa che Todi sia bellissima; l’85% mai se ne andrebbe da Todi”) e dall’altro con la volontà dell’affermazione di sè. È un confronto che non ha una soluzione, perché Todi appare davvero come una prigione e fuggire, anche solo uscendo dagli schemi, si rivela impossibile.

Un quinto personaggio, il documentarista, filtra ciò che accade in scena mettendo in comunicazione il mondo del giudizio (il pubblico) con la realtà su cui ha puntato l’obiettivo. Ma ciò che l’ottica inquadra ci parla più di ciò che si nasconde nelle crepe piuttosto che della realtà stessa, amplificando un non detto fatto di turbamenti, di piccole increspature che incrinano le apparenze. Questo piano narrativo appare però un po’ forzato e stucchevole e non convince fino in fondo.

Livia Ferracchiati in Todi is a small town in the center of Italy costruisce uno spettacolo divertente che riesce a forzare gli schemi dell’inchiesta sulla morale e sui tabù attraverso uno sguardo ironico e pungente.

Nicola Candreva

Livia Ferracchiati

PETER PAN GUARDA SOTTO LE GONNE di Livia Ferracchiati

Mi siedo sulle gradinate delle Tese dei Soppalchi della Biennale Teatro di Venezia e la prima cosa che penso è: “Livia Ferracchiati, stupiscimi!” Senza nulla togliere a Todi is a small town in the center of Italy, certo non mi ha convinto al di là di ogni ragionevole dubbio.

Ebbene, questo Peter Pan guarda sotto le gonne di Livia Ferracchiati, primo capitolo della trilogia sull’identità a cui seguirà per questa Biennale Stabat Mater, mi ha stupito e sarà mio impegno spiegarne le ragioni.

Il palco è uno spazio vuoto, reti a losanghe di ferro pendono fino a terra a ridosso del fondale e dalle americane (queste ultime a disegnare delle volute sospese nell’aria) come a delimitare un giardino che fin dall’inizio si presenta come un giardino interiore. Siamo dentro la testa di Peter e lo saremo fino alla fine. Anche quando il giardino appare come uno spazio pubblico, i giardini di Kensigton ad esempio (per restare in tema e dove campeggia a imperitura memoria la statua dell’eterno fanciullo) o il parco del quartiere dietro casa dove avvengono i primi incontri e scontri tra bambini al di fuori del controllo degli adulti, l’assenza di vita che si respira (la mancanza di schiamazzi, di grida, di palloni contesi e di rumorosa gioia) e l’unicità della relazione tra Peter e Wendy sono segno evidente di una dimensione tutta mentale, tanto che i genitori sono voci fuori campo, voci che rimbombano nel silenzio, che tormentano pur con le migliori intenzioni.

Quella di Peter è una famiglia borghese come tante, che fatica ad accettare i comportamenti di una bambina di 11 anni che sta affrontando il passaggio dalla preadolescenza all’adolescenza, che vorrebbe vederla sempre come la piccola di casa con quel vestitino rosa, che le sta tanto bene, che ne è il marchio di fabbrica.

La distanza tra la visione familiare e la dimensione intima di Peter è da subito incolmabile, un rapporto all’insegna dell’incomunicabilità. La vestizione di Peter che apre lo spettacolo è una danza che è una lotta con il vestito e in fondo con la propria pelle, perché Peter è un adolescente costretto nel corpo di una bambina e la trasformazione in atto è ben più lacerante di quanto possano sospettare mamma e papà.

Gli incontri nel parco con Wendy, una ragazzina di 13 anni che gioca a fare la grande (fuma ma non aspira, però si vanta di avere la tosse), segnano i vari passaggi della mutazione in corso, con un progressivo spogliarsi dei giochi da bambino (Wendy con il suo hula hoop e Peter con il pallone da calcio che sogna di essere Baggio) verso la scoperta graduale della sessualità e di pulsioni sempre più incontenibili. Ogni appuntamento è sostenuto da un dialogo brillante, a volte comico, ma sempre intenso e vero, con gli atteggiamenti, gli imbarazzi, la curiosità, le sfide, le provocazioni che emergono senza mai apparire falsi. Linda Caridi (Wendy) e Alice Raffaelli (Peter) sono due giovani attrici di talento che qui hanno compiuto con successo un percorso di immedesimazione col personaggio (che sa molto di actors studio), con un lavoro sulla gestualità e sul corpo che riesce a restituire l’ingenuità e la freschezza di due ragazzine poco più che bambine.

Il testo drammaturgico (firmato a quattro mani da Greta Cappelletti e Livia Ferracchiati) fa il resto, fotografando una relazione quanto mai realistica, dove i riferimenti al periodo storico sono così poco invadenti (un walkman non fa anni novanta come una rondine non fa primavera) che risultano ininfluenti nella creazione di uno spazio senza tempo in cui tutti possano riconoscersi. E’ così che Livia Ferracchiati ci fa compiere un viaggio a ritroso nella nostra vita passata, ci trasporta in quel delicato momento in cui anche per ciascuno di noi tutto è cambiato per sempre e non è accaduto senza sofferenza e senza lacerazioni, anche se la scoperta dell’identità sessuale non si è scontrata con una diversità di genere.

E’ uno spazio composito quello di Peter Pan guarda sotto le gonne, in cui si sviluppa una molteplicità di piani narrativi, di sequenze spezzate e rimaste forse incagliate in quella rete che sovrasta la scena e che in qualche modo la racchiude, una rete che immobilizza emozioni e ricordi e li relega nell’inconscio, che è luogo del doppio, il regno dell’ombra, in cui i confini tra realtà e immaginazione sono labili, inconsistenti.

Ed è il doppio che entra in scena (interpretato da Luciano Ariel Lanza), l’ombra che James Matthew Barrie fa letteralmente staccare dal corpo di Peter Pan e alla quale l’eterno bambino cerca di ricongiungersi. L’ombra di Peter è la parte non riconosciuta di sè, l’altra faccia di un io diviso, il lato oscuro, è Pan: il dio-capro che governa la natura selvatica e la sessualità. James Hillman (psicologo junghiano e filosofo statunitense) nel suo Saggio su Pan dice che “il più forte desiderio della natura ‘dentro di noi’ è di unirsi con se stessa nella consapevolezza.” Questa lezione è certo presente in questa rilettura della favola moderna di Barrie. L’ombra in Peter Pan guarda sotto le gonne è la parte adulta di Peter, detentrice di una virilità assente nel suo corpo di bambina. La relazione che Peter instaura con il proprio doppio maschile inizia come un gioco di specchi (che sa molto di danza hip hop, sviluppando anche in questo una contaminazione di linguaggi funzionale alla scena) per diventare pian piano qualcos’altro: un vero e proprio conflitto in cui si sviluppa un avvicendarsi di connessioni e sconnessioni tra corpo e anima, tanto che le reazioni agli eventi reali divergono nell’atteggiamento, ad esempio quando Wendy per una scommessa persa si deve togliere le mutandine e mostrarsi a Peter, o convergono lasciando emergere la vera identità, il lato oscuro. Ed è nella dimensione privata e intima di una camera da letto che non ha bisogno di arredi nè di una porta (già dalle prime battute sappiamo che è chiusa, come lamentano i genitori di Peter) per emergere dallo spazio vuoto, che il conflitto diventa sempre più duro e dove le pulsioni trattenute nel mondo reale hanno uno sfogo masturbatorio selvaggio che è in tutto e per tutto maschile. La cameretta è diventata il regno di Pan, ma Pan vuole uscire dalla cameretta.

A stemperare quanto accade nel mondo di Peter, a farlo in qualche modo assimilare senza traumi, Livia Ferracchiati inserisce un altro piano narrativo che ha a sua volta una propria dimensione spaziale e lo fa tramite il personaggio di Tinker Bell (letteralmente Rattoppa Campane), più noto a noi italiani con il nome di Trilly o Campanellino. Tinker Bell (interpretata da una sorprendete Chiara Leoncini) è una fata con ali posticce e senza bacchetta, sboccata e dispettosa che, senza peli sulla lingua, dice ciò che pensa nel momento stesso in cui lo pensa, perché essendo così piccola può ospitare un solo sentimento per volta. Una fata che è tramite tra due mondi, quello universale (il pubblico) e quello privato (Peter), ma che li mette in contatto senza filtri e senza tabù. E’ Tinker Bell a spiegare a Peter (e al pubblico) la sua natura di mezzo e mezzo (“non esattamente una femmina, ma precisamente un maschio”), aiutando il protagonista a “rattoppare” se stesso.

Livia Ferracchiati con Peter Pan guarda sotto le gonne, attraverso le analogie con il personaggio creato da J. M. Barrie e una struttura drammaturgica di grande effetto, ha realizzato uno spettacolo intenso e convincente sul tema dell’identità di genere, senza mai suonare retorico o banale.

Nicola Candreva