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SPECIALE INTERPLAY: IN GIRUM IMUS NOCTE ET CONSUMIMUR IGNI di Roberto Castello

Tra luce e ombra si cammina senza un dove, senza un perché. Un’umanità scomposta, in perenne movimento nei frame di luce concessi per un tempo limitato prima di sprofondare nella notte. D’ogne posa indegna quest’umanità cammina in quel poco di giorno grigio, fatto di luce attenuata come di fumo che scivola via e si disperde, di movimento ossessivo come chi s’affanna per un nonnulla, e poi la notte, prima di un nuovo giorno che non porta novità né progresso. Solo varietà nell’alternar di bianco latteo e nero pece.

Di qual fuoco si sia consumati in questa notte non è dato sapere. Frenesia, furore, smania in quest’inceder coatto, spinti da un ritmo non nostro, ossessivo compulsivo. Un titolo palindromo come lo spettacolo: da qualsiasi parte lo si giri, ridonda lo stesso suono, lo stesso gusto, lo stesso andar da nessuna parte.

:”Che ore sono?”

:”La stessa di sempre”. Un finale di partita eternamente rimandato dalla luce che succede all’ombra. C’è molta atmosfera beckettiana in questo lavoro di Roberto Castello con Aldes. Per tutto il tempo della piece, nel martellare ritmico elettronico, mi risuonava nella mente la May di Passi: nove passi avanti, nove passi indietro, come un metronomo. E così i chicchi si aggiungono ai chicchi finché c’è un mucchio, un piccolo mucchio, l’impossibile mucchio.

Per questo lavoro si è parlato di ritorno del tragico. Non sono d’accordo. Non c’è nessun fato inalterabile a sconfiggere l’eroe che si batte comunque e nonostante tutto. Le Moire non hanno filato nessun percorso ineluttabile. Il procedere è verso nessuna parte. Vi è un eterno ritorno di un’uguale miseria senza nessun destino. Come i ciechi di Bruguel si avanza verso un abisso eternamente rinnovato e rimandato, oltre, senza mai fine.

Un lavoro intenso, provante, sia per il pubblico che per i bravissimi danzatori (Mariano Nieddu, Giserlda Ranieri, Ilenia Romano, Irene Russolillo). Un flusso in eterno movimento, nell’alternarsi di forme di luce che creano spazi sempre diversi per un procedere senza posa. Ogni tanto degli inserti rappresentativi, frammenti di quotidiano distorto, come di feste andate a male, in qualche modo degenerati. Un lavoro disperante, dove anche l’ironia sa di fiele. Nessuna pacca sulla spalla, nessun tentativo di indorare la pillola. D’altra parte l’aveva già detto Shakespeare nella sua tragedia più nera: “La vita e’ solo un’ombra che cammina, un povero attore che si pavoneggia e si dimena durante la sua ora sul palcoscenico, dopodiché non si sente più nulla. Una favola narrata da un idiota, piena di rumore e furia, che non significa nulla.”

Ph. Ilaria Scarpa

irene russolillo

FRANE di E. Chiocchini e MAP di Irene Russolilo

Sotto un diluvio memorabile ieri sera alle Lavanderie a Vapore si son visti due lavori di due giovani artiste decisamente interessanti. Da una parte la talentuosa e già affermata Irene Russolillo con Map, artista di cui abbiamo seguito l’evoluzione artistica da lungo tempo, e Eleonora Chiocchini che ha presentato Frane.

Entrambi i lavori hanno un denominatore comune: la preponderanza dell’aspetto visivo. Le immagini sono affascinanti, accattivanti, catturano lo sguardo per la loro capacità di disegnare spazi su cui l’occhio si posa volentieri.

In Frane siamo in un mondo più oscuro, ombroso, geometrico e spigoloso. La danzatrice tratteggia figure che si muovono a scatti, in una discontinuità nervosa. I veli bianchi che si lascia dietro sulla scena come la bava di una lumaca o la pelle di un serpente disegnano sul palco nero spazi geometrici che ricordano certe tele costruttiviste. Si ha comunque l’impressione di non finito, di qualcosa di mancante, soprattutto dal punto di vista drammaturgico. Se la frammentazione delle immagini è dichiarata nelle intenzioni, un franare del racconto lineare, vi è comunque un senso di incompiutezza. Probabilmente il lavoro è ancora in fase di costruzione, lo si può desumere, benché senza certezza, dalla brevità del pezzo di soli 18 minuti.

Map del duo Russolillo e Calvaresi è invece uno spettacolo più decisamente completo, finito. Da un punto proiettato nello spazio della scena e che appare, quasi solido, sul corpo della danzatrice, – evocativo e toccante l’inizio dove nell’ipnotica lentezza del movimento questo punto prende sostanza e dimensione sul corpo della Russolillo -, si sviluppa un linguaggio frammentato e frammentario che prende vita dal movimento frenetico degli arti che diventano supporto alla proiezione.

Se l’aspetto visivo è decisamente suggestivo resta la delusione che tutto sia solo superficie. La domanda che viene posta nel titolo (once you have learned to speak what will you say?) ottiene una risposta banale, che gioca su facili e sciocche battutine. Le potenzialità di un supporto tecnologico non hanno ottenuto nerbo, ossa e sangue per sostenere quello che alla fine si è dimostrato solo un gioco di visione.

Le mappe casuali disegnate con lo scotch di carta sul fondale e sul palco, le lettere proiettate ovunque da cui si formano parole a caso, la danza frenetica nel fumo illuminato da tagli di luce e dai raggi del proiettore sono sicuramente evocative, gradevoli, di una certa bellezza, ma amena, priva di sostanza come un’ombra, vuotamente gradevole. Si ha l’impressione di occasione perduta, di profondità mancate, di fascinazione del gioco tecnologico fine a se stesso.

Come se la risposta alla domanda: una volta imparato a parlare cosa dirai? La risposta fosse: semplici sciocchezze ma dette molto bene.

Da un talento come la Russolillo, una danzatrice che ha una potenza di espressione corporea rara e magnifica, ammetto di essermi aspettato di più.

INTERVISTA A IRENE RUSSOLILLO

La prima volta che ho visto Irene Russolillo sono rimasto affascinato dalla sua danza graffiante, esuberante, in un certo senso istintiva. Oserei dire che in lei si realizza magnificamente l’ideale di “sprezzatura” definito da Baldassare Castiglioni: ”Da ciò credo io che derivi la grazia, perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficoltà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia…”.
Nei lavori di Irene Russolillo nulla è sforzato, tutto porta a una certa divina grazia, la grazia di una ninfa o di una menade, qualcosa da maneggiare con cura perché contiene in sé una parte oscura, inquietante che appena appare come un’ombra sotto la superficie di uno specchio d’acqua montano. E questa sorta di inquietudine nasce, a mio avviso, dal trovarsi sempre di fronte a qualcosa di veramente intimo, come di confessione segreta, qualcosa da udire con rispetto e conservare nel cuore. È il personale che si riversa e si apre verso il mondo in tutta la sua dirompente fragilità. Ma questo dato autobiografico è sempre distanziato da chi danza, c’è sempre uno scarto come fosse un doppio alchemico: è Irene ma non Irene (Le parrucche, la calotta che nasconde i capelli). Questo distanziarsi da sé, quasi farsi maschera del danzatore, permette che questo universo personale sia avvertito come proprio anche dallo spettatore. In qualche modo si riesce a condividere e a parteciparvi.
Per questo motivo ho deciso questo mese di dedicare una lunga intervista a Irene Russolillo, per parlare dei suoi lavori, dei suoi progetti e delle profonde motivazioni che si annidano nei suoi lavori.

EP: Cos’è per te la danza? E quale pensi sia oggi la sua funzione seppur ne ha una? E quale rapporto ti piacerebbe si instaurasse con il pubblico o un pubblico?
IR: Per me è danza potenzialmente qualunque situazione dinamica che abbia uno sguardo dall’esterno. Lavorare (con) la danza mi pone di fronte molti più elementi oltre al movimento e, rivelandone infiniti aspetti, complica inevitabilmente il significato stesso della parola e il concetto che esprime. La danza può facilitare lo scambio di sguardi e di pensieri tra persone. Inoltre fa venir voglia di accedere più volentieri al (con)tatto. Questo insieme di sguardo, pensiero e contatto può anche emozionare. In generale, attraverso le sue varie declinazioni, la danza può nutrire la ricerca personale e intellettuale di ciascuno, come individuo e come parte di una comunità.

EP: Quando hai capito che la danza poteva essere la tua vita?
IR: Finita l’università, completata in tutt’altro ambito, ho deciso di “provare”; durante l’adolescenza e fino a tutti gli anni universitari, il più delle emozioni provenienti dalla sala di balletto erano state frustrazione e sfiducia. L’incontro con la danza contemporanea e le sue sfumature, il fatto che avessi facilità ad entrare in connessione con certi maestri e che piano piano mi si formasse un gusto e una prerogativa professionale, mi hanno convinto a insistere ma è solo riscuotendo risultati positivi nelle audizioni e piano piano all’interno dei lavori che mi sono “ritrovata” danzatrice.

EP: Quale è stato l’incontro artistico che reputi essere stato il più importante nella tua formazione? C’è un artista che ti ispira, che è il tuo nume tutelare nascosto?
IR: Non ho mai avuto un nume tutelare ma prima di considerarlo un dato di fatto, mi è sempre dispiaciuto non avere un riferimento, un maestro, un “mito” . in seguito ho avuto molti maestri, dai libri e dai video, molti. dal vivo, tre incontri hanno segnato il mio percorso per ragioni molto diverse tra loro, quello con micha van hoecke, cesar brie e roberto castello. ma devo dire che ho avuto “rivelazioni” anche in incontri brevissimi.

EP: Qual’è il lavoro a cui ti senti più legata? E qual’è invece quello che ti ha fatto credere nelle tue capacità espressive?
IR: Il lavoro a cui sono più legata è il mio solo strascichi. c’è un prima e un dopo strascichi per me come artista e per me come persona. il lavoro che invece definisco la “psicoterapia” più efficace nella mia esperienza è stato carne trita di roberto castello, in cui ho “liberato la bestia” (soprattutto con l’uso della voce) e sono andata in territori espressivi ampi e per me nuovi.

EP: Parlando di Strascichi, un lavoro che ritengo molto toccante e graffiante nello stesso tempo, sembra, ma magari è una mia impressione, che l’autobiografia sia il motore importante del lavoro. E’ corretto? e se si, tale motore si limita a quel lavoro o parti sempre da elementi autobiografici che poi in qualche modo diventano opera e si distanziano da te?
IR: Non che abbia ancora un repertorio così vasto, tutt’altro. ho all’attivo 3 soli concepiti e realizzati; al momento sto lavorando su due progetti molto diversi tra loro, in collaborazione con altri artisti. per questi ultimi due andiamo a “pescare” ovunque, fuori e dentro di noi. a posteriori posso dire invece che tutti e tre i soli sono nati da spinte interne “vomitatrici” e inopponibili, quindi sì, decisamente autobiografici almeno nel loro punto di partenza.

EP: Qual è il ruolo che attribuisci alla voce e al canto nel tuo lavoro?
IR: La voce è uno degli elementi della scena. È un mezzo che amplifica possibilmente l’espressività e il senso di quello che faccio. Come strumento a sé e nel suo coesistere al movimento, è un terreno in cui indago e compongo con l’entusiasmo di una principiante, con molta curiosità e stimoli. Il canto è un desiderio, un piacere.

EP: Da quali elementi la natura del tuo movimento trae forza e nutrimento?
IR: Il mio movimento nasce dalla forza anche rituale che la scena mi da, dal momento in cui sono presente sulla scena e ho un pubblico. Da quando ho smesso di seguire un ideale di esecuzione, la mia danza è diventata la mia danza. Durante le prove ripeto le azioni ma è solo in scena che il movimento si nutre e si espande oltre me stessa e, talvolta, malgrado me stessa.

EP: vedendo i tuoi lavori ho sempre avuto l’impressione che l’autobiografia sia un punto di partenza, un elemento portante: se è così in che modo diventa materia nel tuo lavoro artistico? e come riesci a distanziare un elemento così vicino e incandescente?
IR: Nei soli Strascichi e A loan è stata molto importante la scelta dei costumi e del trucco. Cerco di far venire fuori un’immagine sostanzialmente distante dall’ “irene quotidiana”. È un “mascheramento” che serve innanzitutto ad “ingannare” me stessa, altrimenti imbrigliata in drammi esistenziali a cui rimarrei appiccicata. In altre parole, cerco di mettere a punto un piano formale rigoroso – oltre ai costumi, la musica, la danza, le luci, i testi – che faccia da “filtro” e diventi esso stesso contenuto. In seguito cercherò di capire come un mio punto di partenza personale possa stimolare anche altre persone.

EP: Mi parli di Ebollizione? com’è nato? Quale è stata la genesi e la sua fortuna e quale è stata la sua importanza nel tuo percorso artistico?
IR: Ebollizione è nato da una spinta esterna, a creare qualcosa di mio. Io che da tanto ormai stavo stretta nei soli panni dell’interprete, ho messo nel pezzo diverse delle cose che già da tempo avrei voluto fare. Ebollizione è nato nella totale solitudine, non avevo ancora il coraggio di coinvolgere qualcun altro. ne è venuto fuori uno sfogo anche divertente ma al quanto acerbo.

EP: Parliamo di A Loan. da cosa nasce l’esigenza di affrontare questo viaggio nell’oscuro e nella debolezza? E in cosa consiste “il prestito”?
IR: Rifletto spesso su quanto non ci sia scelta nelle relazioni umane se non accettare le parti oscure di ciascuno per stare in dialogo con gli altri, in primis le persone che ci stanno più vicine, anche se non le “capiamo”. Ho voluto dialogare con queste parti oscure che sono giudizi, desideri, paure, intenzioni, ricordi e a cui ho dato il nome comune di “fantasmi” ; nel farlo mi sono ritrovata di passaggio su strade probabilmente già tracciate o da risolcare che, in sostanza, non sentivo di possedere. Le parole di alcuni sonetti di Shakespeare sono state il motore scatenante di tutto il lavoro perché risuonano profondamente in me, non avrei potuto trovare altre parole e quindi mi sono concessa questo prestito dal Poeta.

EP: A Loan mi è sembrato un lavoro molto meno istintivo rispetto a Strascichi o a Ebollizione, un lavoro molto ponderato, riflessivo, solido ma fluido, come se per affrontare l’oscuro tu abbia in qualche modo messo un freno alla tua vitalità esuberante, come se ci volesse più circospezione, più prudenza. é una considerazione che vorrei che tu possa commentare, se lo vuoi.
IR: Ho cercato di comporre una formula con i vari elementi, in un lavoro al cesello. Parlando di “ciò che c’è, anche se non si vede” (v. fantasmi della domanda precedente) non potevo liberare l’energia né avere un potere liberatore su chi mi guarda. I movimenti sono muscolari e compressi, la calotta nasconde i capelli, la luce e la musica sono ipnotici. Per parlare di assenza avevo bisogno di nascondermi un po’.

EP: Verso quali orizzonti ti sta portando la tua ricerca?
IR: Non mi pongo grossi limiti, per me la danza ha molti sensi e varie misure. E, in generale, ho molti desideri.