La scena delle donne

LA SCENA DELLE DONNE: INTERVISTA A BRUNA BRAIDOTTI

Inizia domani in Friuli Venezia Giulia, tra Pordenone, Cordenons e e Vigonovo di Fontanafredda, La scena delle donne, un festival dedicato interamente al femminile e che giunge alla sua diciottesima edizione. Spalmato sul un lungo periodo fino all’autunno La scena delle donne vuole fornire uno spaccato non solo artistico sulla condizione femminile non solo in Italia. Il primo blocco di programmazione si dona un titolo importante: Connessioni Intergenerazionali e vuole appunto mettere in comunicazione e confronto artiste di diverse generazioni. In occasione di questo inizio, rimandato causa Covid, ma che coincide con la Feste delle donne, abbiamo intervistano la direttrice artistica Bruna Braidotti.

Parlando della questione femminile e di genere in questi ultimi anni vi è stata una graduale messa in discussione di diritti che si pensavano ormai acquisiti (penso all’aborto, per esempio) e una crescente ostilità nel riconoscere da parte della politica prima e della società in generale, parità di genere a qualsiasi genere: quali sono secondo te i motivi di questi passi indietro?

Credo sia accaduto a partire dagli Ottanta e Novanta, una sorta di riflusso del femminismo, la voce femminista si è come acquattata. Questa trasformazione l’ho anche un po’ vissuta nel mio lavoro e nella mia attività di creazione in teatro di un movimento per le donne e per la parità di genere. A un certo punto, l’interesse per il femminismo è andato scemando, addirittura anche la parola “femminismo” è stata un po’ messa all’indice. Nonostante stessero nascendo e si diffondessero le commissioni per le pari opportunità, i centri antiviolenza, che sono stati dei catalizzatori dell’attivismo delle donne, c’è stata una involuzione culturale, dovuta all’espandersi di una cultura effimera superficiale, promossa dai media come la televisione e anche, se vogliamo, i social network. Chiaro che la politica c’entra molto in questo discorso: ti dico solo che nel 2006 ho tenuto un convegno a Pordenone sulle donne e teatro, su La rappresentanza e la rappresentazione, c’era il governo Prodi. Fu bellissimo, venne anche Judith Malina del Living Theatre, fu il primo passo per la nascita della rete che tuttora è attiva in Italia. Nacquero molte speranze, iniziammo a fare convegni in giro. Dopodiché tutto è morto, in concomitanza con il cambio di governo e il berlusconismo. C’è stata secondo me questo tipo di influenza, quella che io chiamo la cultura dell’effimero, che ha fatto scemare l’urgenza delle donne di tutelare ciò che avevano già conquistato.

A seguito dei movimenti #metoo anche in Italia si sono mosse le acque sulle questioni di violenza esercitate nel mondo dello spettacolo. È nata Amleta per contrastare le disparità e violenze di genere, le cui denunce su Facebook hanno fatto emergere un panorama vergognoso e avvilente. Cosa si può fare ancora secondo te per impedire a episodi di questa gravità di ripetersi?

Chiaro, il movimento #metoo ha rilanciato il movimento delle donne e dei loro diritti. In effetti la cultura del rispetto delle donne fa fatica ad affermarsi. Quello che secondo me le donne potrebbero fare sarebbe attivarsi maggiormente, soprattutto sui media, attraverso la rappresentazione stessa delle donne. Le donne non fanno abbastanza. Si accetta troppo tranquillamente che per esempio in televisione siano tutte con il “tacco 12”: perché? Perché bisogna essere sex symbol? Le donne stesse purtroppo si adattano a questo. Una volta durante un incontro è successa una cosa che mi ha fatto ridere: una ragazza femminista, sempre nell’ambito del teatro, affermava quanto fossero importanti tutte queste cose che stiamo dicendo, ho guardato poi com’era vestita, era novembre: praticamente in mutande. Una si può vestire come vuole, sia chiaro, ma spesso non riflettiamo su come il nostro abbigliamento (quello a cui siamo condizionate dalla moda e dalla pubblicità) abbia la sola funzione di attrarre sessualmente gli uomini secondo il loro desiderio di cui abbiamo introiettato lo sguardo. Ma bisogna cominciare a cambiare. Volevo raccontarti un episodio, una manifestazione a cura di Marisa Ulcigrai di Fotografaredonna che è stata fatta a Trieste un po’ di anni fa, FemminileReale, e che io ho subito ripreso a Pordenone, organizzando una mostra su questo. Nel mese di marzo, in collaborazione con l’azienda dei trasporti di Trieste, furono affisse sui mezzi di trasposto pubblico grandi immagini di donne del quotidiano. Donne anche belle, se è per quello, ma nella loro normalità, non sex symbol. L’effetto in termini di comunicazione è stato fortissimo, perché non siamo più abituati a questo tipo di immagini. Siamo abituati ai filtri bellezza, alle immagini patinate, smussate, spesso ammiccanti. Gli uomini non accettano di vedere le donne per quello che sono. Servirebbero più iniziative di questo genere. C’è molto da fare sui media per cambiare l’immaginario femminile preteso dagli uomini, secondo cui le donne sarebbero adatte solo a espletare “quella” funzione.

Emanciphate Teatro al femminale

Per quale motivo, secondo la tua opinione, il mondo maschile è così restio ad accogliere il femminile e ciò che di inconsueto e raro può portare non solo in ambito creativo, ma politico e sociale?

Secondo me gli uomini sono ancora dentro il pensiero dell’assoluto e dell’Uno. Non hanno ancora compreso la differenza, o meglio, che la differenza è un limite. A partire da quella sessuale. Anche se sullo stesso piano, gli uomini e le donne sono differenti. Ciò significa che uno non può appropriarsi dell’altro o rappresentare l’altro. Sono come una pera e una mela: entrambi frutti, ma sono differenti. Il desiderio dell’altro o dell’altra può essere un limite al proprio e la convivenza felice tra i due dipende dall’accettazione e il rispetto di questo limite. Gli uomini non sono abituati a questo, perché si sentono il soggetto unico. Una rivoluzione culturale degli uomini comporterebbe pensare di perdere la propria identità così come gli era stata trasmessa. Gli sembrerà di perdere qualcosa, perché sin da bambini viene fatto percepire l’essere maschio come un valore aggiunto, un “di più”. E questo è quindi un problema per gli uomini: una donna si può vestire da uomo ed essere comunque riconosciuta come donna, può mettere una cravatta e nessuno si permetterebbe di dire in modo spregiativo che quella donna è un uomo, ma un uomo può sentirsi libero di mettere, nella nostra società, una gonna rosa? Se la mette, perde la sua identità di uomo. 

Non possono mai mostrarsi come donna, perché gli è stato fatto intendere che essere donne è un minus. È un problema di identità costruita dal patriarcato, che per loro è difficile perdere, perché fin da bambini gli hanno insegnato che è meglio essere uomini che donne. Cosa vuol dire in campo politico? Per il politico accettare l’affermazione delle donne significa perdere potere e quelle poche che salgono al potere vengono spesso prese di mira. Se le donne fossero in massa  in politica sono certa che i Comuni farebbero vertere i loro programmi su contenuti diversi. Forse avremmo meno campi di calcio e più asili nido o servizi per la maternità. E poi mi domando: il genere femminile, che capisce che cosa vuol dire avere la vita dentro il proprio corpo, la concepirebbe la guerra? Di donne guerrafondaie ce ne sono, per carità, ma sarebbe da provare: se le donne fossero veramente al potere (cosa che ancora dal matriarcato in poi non è più successo) forse il mondo sarebbe più pacifico? Le donne in generale sono più legate alla conservazione della specie.

Ti faccio una domanda che può apparire provocatoria, ma non lo è: c’è qualcosa in cui i movimenti femministi e di difesa della donna hanno, non dico sbagliato, ma omesso o trascurato nella comunicazione con l’universo maschile più conservatore e legato al patriarcato? Il dialogo e la comprensione sarebbero potuti avvenire in forme diverse da quelle utilizzate?

Non credo. Anzi, credo le donne siano state fin troppo gentili e poco aggressive; hanno inventato le femministe la lotta non violenta, si legavano ai cancelli ai primi del Novecento per chiedere il diritto di voto. Credo però che le donne dovrebbero osare di più, essere forti e non avere la minima condiscendenza verso il maschilismo, perché altrimenti gli uomini se ne approfittano. Le donne mantengono sempre un po’ quest’atteggiamento. Anche la femminista più cruda, per esempio, si depilerebbe sempre le gambe, perché alle radici c’è sempre una cultura patriarcale verso la quale si è condiscendenti, “io mi adatto al tuo sguardo, che vuole che io sia attraente, con la pelle liscia, ecc. ecc.”. È una cosa tutta culturale, non naturale. Secondo me dovremmo osare di più, mettere più forza nella nostra lotta. Come formano gli uomini la loro identità, fra di loro? Lottando, competendo, spesso anche i bambini hanno bisogno di lottare fra loro, far a botte per mostrare quella forza che afferma la loro identità. E quindi anche le donne avrebbero bisogno, per farsi rispettare di mostrare la loro forza e determinazione. 

La stanza delle anime di e con Arianna Ardonizzo Regia Bruna Braidotti

Parlando de del festival da te diretto Scena delle donne, avete riscontrato negli anni un crescere di pubblico maschile? Gli uomini si sentono toccati dai temi e dagli spettacoli che proponete o il pubblico è prettamente femminile?

Devo dire che sono aumentati numericamente ed è aumentata la sensibilità verso i temi femminili. Qualcosa insomma si è mosso in questi ultimi anni. Non so quanto il mio festival abbia contribuito, perché nel frattempo anche altre cose sono successe. Stanno cambiando anche le nuove generazioni, e in questo cambiamento io confido. Devo dire che tuttavia persistono tra i giovani maschi alcuni stereotipi. Dico questo perché io lavoro molto nelle scuole, anche elementari, e se c’è una cosa che è retro-tendente, che non contribuisce a far cambiare le cose, è il linguaggio. Si dice sempre “i bambini” e mai “le bambine”: questo fa capire alle bambine che il loro genere è meno importante; non sono mai protagoniste nel linguaggio. Sarebbe importante incominciare a fare questa fatica di declinare le parole sia al maschile sia al femminile (per esempio, “i bambini e le bambine”), di modo che le bambine si sentano protagoniste anche loro. Comunque tornando alla domanda che mi hai fatto, il pubblico rimane prevalentemente femminile, spesso è anche un pubblico femminile già particolarmente sensibile a questi temi, mentre quello che vorremmo è rivolgerci a tutto il pubblico, stimolare una programmazione maggiore di proposte femminili nei festival (per questo facciamo anche concorsi come La giovane scena delle donne all’interno del festival), nelle rassegne e nei circuiti affinché sempre più drammaturghe e registe possano accedere ai cartelloni dei teatri (cosa che non succede). I cartelloni infatti vedono il 30% di drammaturghe e il 20% di registe, questo almeno secondo la ricerca da me condotta qualche anno fa e da quella realizzata da Amleta recentemente. La partecipazione maschile del pubblico  però, anche se è un po’ aumentata,  resta un problema. Giovani attori che io interrogo ogni tanto, anche quelli che lavorano con me, a cui chiedo se andrebbero a vedere lo spettacolo che tratta della violenza sulle donne mi rispondono “no, perché riguarda le donne”. È terribile questa cosa, è come se non fosse chiaro che il soggetto protagonista della violenza non sia la donna, ma l’uomo che la agisce. 

Magda Siti

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A MAGDA SITI

Siamo alla quattordicesima intervista di Resistenze Artistiche e torniamo sulla via Emilia, a Modena per incontrare Magda Siti, direttrice e anima forte di Drama Teatro. Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Dal 2014 gestiamo uno spazio comunale sempre con l’idea che il nostro sia un vero e proprio servizio pubblico. Servizio che in questi due anni è rimasto chiuso per centinaia di giorni. Dopo il momento iniziale di shock abbiamo subito attivato quel sistema di difesa che si chiama creatività: abbiamo cioè continuato a progettare e ipotizzare azioni nel mondo reale per un futuro che non sapevamo quando sarebbe arrivato. Lo spazio fisico quindi è rimasto chiuso, lo spazio virtuale si è limitato a un contatto diretto con gli spettatori attraverso la call per il festival internazionale Cinedanza e le dirette settimanali su YouTube “Inside Cinedanza”. Nell’estate del 2020 il teatro era sempre chiuso e le performance che abbiamo organizzato per la rassegna “Frequenze” si sono svolte in un cortile privato e in un parcheggio di un circolo Arci. Sul filo del rasoio (ottobre 2020) siamo riusciti a portare a termine il festival Cinedanza in presenza e in diretta streaming su YouTube. Il secondo lockdown è stato più pesante del primo, ma siamo comunque riusciti ad elaborare il progetto “La vostra voce” che ha coinvolto cittadini e spettatori. Il focus erano loro, la loro voce, i loro racconti, le loro esperienze, che abbiamo raccolto sia davanti all’ingresso del teatro (registratore alla mano) sia attraverso una call di raccolta di racconti brevi. Poi c’è stata anche una piccola azione politico/artistica: un countdown al contrario: dirette video in cui, ogni giorno di chiusura, dalla bacheca del teatro strappavamo un foglio così che il numero stampato crescesse. A 100 giorni di chiusura abbiamo fatto un flashmob sul tetto del teatro.

Da gennaio 2021 abbiamo esplorato il mezzo radiofonico e proposto l’ascolto in prima serata di alcune opere costruite apposta da Radio Tempi Tecnici. In più ci siamo lanciati nelle prove di Era meglio Cassius Clay che ha debuttato in estate al festival Inequilibrio.

Infine l’imbuto infernale delle riaperture. Da maggio ad oggi non ci siamo mai fermati, tra attività all’aperto e al chiuso abbiamo proposto 17 titoli per un totale di 26 serate in 3 spazi della città.

Verso quali direzioni si è puntata la vostra ricerca e la vostra attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Abbiamo continuato il percorso con gli artisti con cui condividiamo da alcuni anni una riflessione sul lavoro dell’attore in scena e la scrittura scenica. Abbiamo sfruttato ogni momento possibile, tra una chiusura e l’altra e siamo arrivati al termine di una nuova produzione con testo e regia di Rita Frongia: ” Era meglio Cassius Clay”. Contemporaneamente abbiamo stretto i rapporti con un gruppo di attori giovani, a cui era giusto dare spazi sia fisici sia di creazione. È stato fondamentale per noi pensare a cosa diventava inutile. Pensare alle priorità,cercando di salvaguardare il più possibile le nostre linee culturali, compatibilmente con la sopravvivenza.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Abbiamo avuto una vicinanza con l’amministrazione comunale che ha sostenuto il settore anche con dichiarazioni pubbliche oltre a dare sostegno economico nei limiti delle loro possibilità.

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il vostro pubblico?

Pensandoci bene, forse non abbiamo modificato radicalmente le strategie,se non nel adeguare il mezzo comunicativo alle esigenze sanitarie( radio,interviste,) perché comunque noi abbiamo sempre privilegiato un rapporto continuativo, spesso personale o coinvolgendo piccoli gruppi di spettatori. La riflessione maggiore che abbiamo fatto, riguarda la nostra attività : su cosa investire? È il momento di farlo?

Yoko Ogawa

DAL TEMPO DI MNEMOSINE AL TEMPO DI AMNESIA

Il bellissimo libro di Yoko Ogawa L’isola dei senza memoria, uscito in Giappone nel 1994, racconta con delicata crudeltà di uno strano stato insulare in cui spariscono oggetti per ordine di una ferrea ed efficientissima polizia segreta. Si tratta di cose semplici, usuali e concrete: i francobolli, i frutti di bosco, le cartine geografiche, gli uccelli.

La gente avverte come una sensazione, una sorta di perturbazione nell’aria, e sente di doversi liberare degli oggetti cancellati, bruciandoli, o gettandoli nel fiume. Altre volte finisce per non percepirli più e piano piano se ne dimentica: «tutti tornano presto alla quotidianità di sempre. Non si ricordano nemmeno più cosa abbiano perso».

Coloro che, sfortunatamente, continuano a rammentare vengono subito arrestati e fatti sparire dalla polizia segreta. A costoro non rimane che nascondersi in rifugi e nascondigli, aiutati da poche persone sensibili e volenterose che, pur assuefatti alla dimenticanza, non vogliono veder sparire anche amici e parenti.

Non è un vero atto di ribellione però. Dal lato di chi dimentica è più un atto di pietà e di solidarietà per questi sfortunati incapaci di dimenticare; da parte di coloro con la memoria intatta, è un mero atto di sopravvivenza. Il risultato è comunque il medesimo: la gente che ricorda sparisce dalla circolazione così come gli oggetti

L’isola prosegue senza scossoni la sua vita nonostante le cancellazioni delle cose, persone, animali, sentimenti e mestieri: «era come se quest’isola non potesse stare a galla che su un mare di vuoto dilagante». Gli abitanti, da parte loro, sembrano in grado di «accogliere qualsiasi vuoto».

Come detto non vi è ribellione. Solo rassegnazione. Anche quelli che si nascondono non fanno altro se non condurre una vita da talpe in tane profonde e silenziose.

Alla fine si giunge alla scomparsa di parti del corpo. Poi come per la ninfa Eco, non rimane che una voce non più comunque capace di dire, perché priva di parole, di ricordi, di sensazione, di memoria, inaridita dalla mancanza di appigli con la realtà, presente ma non percepita.

Il libro di Yoko Ogawa non è l’unica opera negli ultimi anni in cui la perdita di memoria è al centro di un discorso, non solo narrativo, ma politico e filosofico. Potremmo ricordare Embers di Claire Carré, dove il mondo è caduto preda di un virus per cui si rimane solo con la memoria di breve termine, ossia non più di 30 secondi; oppure i più famosi e celebrati Memento e Inception di Christopher Nolan.

Sembra che per molti artisti e pensatori (non ultimo Byung Chul Han) la malattia di questi ultimi decenni sia proprio la scomparsa del passato (e conseguentemente di un futuro) di una società occidentale appiattita sul momento presente, sempre più uguale a se stesso, ripetibile e riproducibile.

Persino in questa terribile crisi tra Ucraina e Russia appare evidente la rimozione della storia recente del continente. Anche giornalisti di grande levatura come Antonio Caprarica o Enrico Mentana insistono sul ribadire la fine di un’epoca di pace durata per l’Europa più di settant’anni. Come? Ci siamo dimenticati delle guerre balcaniche che hanno insanguinato gli anni ’90? Dei massacri e delle pulizie etniche? E ancora prima: la rivolta d’Ungheria o la Primavera di Praga, la Guerra Fredda? E di tutte le guerre in cui siamo stati coinvolti a partire dalla Prima Guerra del Golfo? Memoria corta, se non cortissima.

La storia sparisce non solo dai tavoli della geopolitica ma persino dalle assi polverose dei palcoscenici. Parlando con molti giovani autori si scopre la quasi non conoscenza di veri e propri giganti della ricerca scomparsi nell’ultimo trentennio come Kantor o Carmelo Bene.

Carmelo Bene

Quali le ragioni di questa scomparsa della memoria? E quali le conseguenze? Difficile rispondere a queste domande. Bisognerebbe innanzitutto riaprire gli occhi, togliere la polvere che si è posata sulle nostre palpebre e cercare di analizzare il mondo con occhio limpido scevro di pregiudizi.

Certo potremmo individuare alcune cause palesi come la logica neocapitalista che spinge a frettolosi risultati per incassare un utile il prima possibile. Potremmo accusare la pratica dei social in cui gli eventi si succedono con tale velocità da cascare nell’abisso della dimenticanza nel giro di pochi minuti. Qualsiasi sia la causa ci siamo trasformati in una civiltà non solo smemorata ma senza nessun progetto per l’avvenire.

Questo accade in politica in ambito energetico, scolastico, sanitario. L’ambito culturale non sfugge a questo destino e ci troviamo di fronte alla riproposizione di pratiche già ampiamente esplorate nel recente passato e credute oggi eclatanti novità, così come reinvenzione di soluzioni già percorse ma cadute nel dimenticatoio.

Pensiamo solo alla migliore ricerca teatrale del secolo scorso, quell’asse immaginario che potremmo far passare da Mejerchol’d ad Artaud fino a Carmelo Bene, ossia quel teatro che vedeva il testo come ultimo elemento tra tanti e il teatro come invenzione e non semplice messa in scena di un già detto. Tutto questo sembra per lo più lettera morta, si inneggia alla drammaturgia, al recupero di testi vetusti, ai classici rivisitati e semplificati. Dal testo non solo si parte ma non si prescinde.

La Classe Morta Tadeusz Kantor

Come è stato possibile quindi che ciò che ha reso effervescente e innovatore il Novecento sia improvvisamente sparito dall’orizzonte dimenticato come se si fosse tutti caduti per sbaglio nel fiume di Leté? Qualcuno potrebbe dire che sono i corsi e ricorsi della storia, che è normale un certo ritorno della drammaturgia dopo tanto sperimentalismo. Tutto vero, ma non dimentichiamo che la drammaturgia in teatro non passa per forza e necessariamente da un testo e che per moltissimi secoli quest’ultimo era scritto dopo l’invenzione dell’attore e del drammaturgo sulla scena. Quello a cui mi riferisco è una smemoratezza più profonda, qualcosa che intacca il cordone ombelicale della Tradizione, quella con la maiuscola, non quindi il trito conservatorismo ma quel tesoro inestimabile di conoscenze e di pratiche che hanno costituito la storia del teatro come arte.

La dimenticanza non è solo grave quindi solo nei riguardi delle più spericolate e ardite ricerche Novecentesche ma persino appunto del Canone. Marinetti e Carmelo Bene non furono grandi innovatori solo perché ebbero splendide e geniali idee ma soprattutto perché seppero ancorare la loro ricerca alla migliore tradizione riuscendo a vivificarla, a donargli nuovo spirito e forza.

Carmelo Bene, di cui ricorre il ventennale della morte, si scontrò con questa Tradizione, ma seppe saccheggiarne il meglio ed esaltarlo mutandolo in nuova forma: il grande attore/creatore inventore della scena, la tradizione del melodramma, il lieder e il melologo, il grottesco e il comico della migliore Commedia dell’Arte.

Per innovare occorre conoscere il canone a menadito, solo così si può imporre una variazione. Se oggi sulle scene vediamo il ripetersi di un già visto che poco appassiona è perché vi è stata una netta cesura tra chi oggi agisce sulla scena e la generazione passata. Trovare la causa di questo distacco placentare poco importa perché al passato non si pone rimedio. Occorre trovare delle ricette per riannodare le fila, ripartire da una conoscenza che ci leghi al passato per proiettarci in un futuro, per non essere simili agli abitanti dell’isola dei senza memoria pronti a dire senza tanti rimpianti: «Finora abbiamo accettato ogni tipo di sparizione. Anche quando si è trattato di cose molto importanti, piene di ricordi, insostituibili, non ne siamo rimasti sconvolti o addolorati in maniera eccessiva. Siamo in grado di accogliere qualsiasi vuoto!»

Teatro Akropolis

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A TEATRO AKROPOLIS

Per la tredicesima intervista di Resistenze Artistiche ci spostiamo da Bologna verso Genova per incontrare Teatro Akropolis sotto la cui sapienti mani prende forma anche il Festival Testimonianze, Ricerca, Azioni. Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Carlo Sini La parte maledetta

Potete raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Lo spazio di Teatro Akropolis non è solo una sala teatrale, ma anche il luogo dove tutte le attività creative della compagnia hanno la loro sede. Non si tratta solo della produzione degli spettacoli, ma di tutte le iniziative di ricerca e di formazione che costituiscono la nostra attività permanente. L’impossibilità di utilizzare lo spazio a causa delle restrizioni che sono state imposte si è sommata alle difficoltà già in atto a causa dei lavori di ristrutturazione che hanno interessato il teatro. La produzione artistica e lo spazio, che abitualmente sono strettamente legati, si sono forzosamente allontanati, e le attività di produzione e di formazione si sono trasferite in spazi diversi, vicini al teatro ma separati. Non solo l’aspetto logistico si è dovuto adattare a luoghi diversi, ma anche il lavoro per la scena, rivedendo le modalità e le procedure finché è stato possibile, e rinunciando al lavoro con gli attori quando è diventato inevitabile. L’unico aspetto della nostra attività che è sfuggito alle restrizioni e ai divieti è stato quello dedicato alla formazione, e la nostra ricerca si è concentrata proprio lì. Il lavoro degli attori di Akropolis con i bambini e i ragazzi del quartiere è cresciuto in questi lunghi mesi fino ad arrivare a coinvolgere un migliaio di alunni e studenti. La possibilità di continuare a lavorare sui principi che entrano in gioco anche negli spettacoli ci ha consentito di non fermarci definitivamente ma di mantenere vivo il fuoco dei temi e dei problemi che li ispirano.

Teatro Akropolis Laboratori

Verso quali direzioni si è puntata la vostra ricerca e la vostra attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Quando l’accesso alla scena è sostanzialmente negato l’unica possibilità che si prospetta per continuare a lavorare è quella di spostare il processo creativo su un altro piano. Il lavoro con gli attori che noi conduciamo prende le mosse da una approfondita elaborazione teorica, che si sviluppa attraverso un’elaborazione condivisa di immagini e di itinerari di pensiero. Molto spesso questo aspetto letterario della creazione non si concretizza in immagini che compaiono direttamente sulla scena, ma costituisce un repertorio di materiali che rimangono latenti. Su questi contenuti abbiamo lavorato, rielaborandoli attraverso un linguaggio differente rispetto a quello delle arti performative, quello del video. Nasce così il progetto La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro, un ciclo di film dedicati ad alcune delle figure più significative della scena contemporanea proprio in riferimento al loro personale percorso, che ha portato a un punto critico alcuni temi riferiti alle problematiche che sorgono quando si affronta la scena e la performance. Il titolo si riferisce proprio a quella parte del lavoro che non compare nell’opera, che nel processo estetico è stata ripudiata ma non rinnegata. I titoli finora realizzati sono Paola Bianchi, Massimiliano Civica, Carlo Sini. La ripresa delle attività teatrali ha portato con sé l’inizio di un nuovo lavoro per la scena, ma allo stesso tempo stiamo lavorando ad un nuovo titolo per la produzione cinematografica. Per quanto riguarda la nostra attività organizzativa abbiamo dovuto affrontare la chiusura della sale proprio pochi giorni prima dell’edizione 2020 del festival Testimonianze ricerca azioni. Era un periodo estremamente confuso e ci siamo sentiti in dovere di prendere posizione contro la pratica, che si stava diffondendo, di sostituire lo spettacolo dal vivo con spettacoli in streaming o con registrazioni video delle performance. Abbiamo proposto un’edizione del festival interamente digitale, che rispettasse le date e i luoghi dove da programma erano previsti gli spettacoli. In diretta streaming abbiamo invitato gli artisti ad un tavolo virtuale di confronto perché raccontassero la loro poetica, la loro ispirazione, le inquietudini profonde che ispirano il loro lavoro, mentre noi ci collegavamo dalle sale vuote che avrebbero dovuto accoglierlo. È stato un successo e la nostra proposta è stata accolta con il riconoscimento del Premio Hystrio Digital Stage.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Le istituzioni hanno mantenuto vivo il loro interesse per il progetto di Teatro Akropolis, infatti il periodo di difficoltà ha coinciso con il proseguimento dei lavori di ristrutturazione della sala, che a breve verrà inaugurata e ci consentirà di rilanciare con forza il nostro progetto artistico e curatoriale. Inoltre il Comune di Genova ha messo a nostra disposizione una sala del Teatro Nazionale permettendoci di realizzare la tredicesima edizione del nostro Festival Testimonianze ricerca azioni che nel 2021 è tornato in presenza, anche se non a Teatro Akropolis. Anche Palazzo Ducale ha confermato il suo sostegno alle nostre iniziative ospitando la quarta edizione del convegno internazionale sulla danza butoh e gli spettacoli che lo hanno accompagnato.

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il vostro pubblico?

Il tema del pubblico è uno di quelli più sensibili in questo periodo di crisi, la riapertura dei teatri non ha coinciso con un ritorno del pubblico in sala, come una certa narrazione invece ci ha raccontato. Il pubblico è spaesato, la capienza massima delle sale che viene modificata a brevi intervalli, contribuisce a diffondere un clima di incertezza. L’ultima edizione del festival ha avuto un’ottima risposta di pubblico, ma una buona affluenza non è un dato che possa considerarsi stabilizzato. È ancora più importante, quindi stabilire e mantenere un legame privilegiato con il proprio pubblico, in modo da creare quel senso di comunità che faccia del teatro un luogo familiare, dove andare senza timore. Per far questo è importante creare un canale di informazione sempre aperto, attraverso i social ma non solo. Una buona parte del pubblico si è fidelizzato anche grazie ai rapporti con il territorio, attraverso i laboratori per le scuole, per esempio, che sono un veicolo prezioso per ribadire la presenza dei un teatro e della sua attività e per creare curiosità e interesse per le sue proposte.

Quali sono le vostre aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Che sia riconosciuto o meno lo stato di eccezionalità non è più reversibile. è in atto un cambiamento molto profondo nelle abitudini del pubblico e nella percezione della fruizione culturale. Uscire di casa per andare a teatro non sarà più come prima, non sarà più un gesto neutro. È ormai un atto politico, animato dalla consapevolezza dell’appartenenza ad una comunità, dall’idea di sostenere la vita di un luogo e di un’attività. Ma può diventare anche un gesto che è meglio evitare, può diventare qualcosa a cui abdicare, magari nel nome della sicurezza e dell’integrità personale, o magari perché la cultura viene vista come un lusso da cui è preferibile stare alla larga.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la vostra opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Un tema che non è stato affrontato è quello della distinzione delle discipline. I linguaggi artistici ammessi ad essere finanziati sono espressione di una suddivisione per specialismi che porta ad una classificazione molto convenzionale. Tutte le spinte delle scene indipendenti, tutti gli impulsi che vengono dai contesti in cui si lavora con uno spirito di ricerca, fino a costituire autentiche esperienze di laboratori condivisi da artisti che si esprimono con linguaggi differenti, sfuggono inevitabilmente alle categorizzazioni imposte dei parametri ministeriali. In particolare la distinzione delle arti performative per la scena in danza e prosa è lo specchio di un punto di vista che esclude gli aspetti più significativi dell’innovazione dei linguaggi performativi. La conseguenza di questa lettura della scena contemporanea è che i sostegni più impostanti vanno ad alimentare le realtà più legate ad una estetica conservatrice.

CHI SIAMO

Teatro Akropolis da oltre dieci anni è un luogo dedicato alla ricerca artistica, all’elaborazione e alla condivisione dei contenuti che innervano e accompagnano l’atto creativo, all’attenzione rivolta al pensiero degli artisti prima ancora che all’esito dei loro lavori. Teatro Akropolis è anche un gruppo che conduce un lavoro ispirato ai temi dell’origine dell’atto teatrale, a partire dalle pagine di Nietzsche, e alla loro tematizzazione sulla scena contemporanea.

Laminarie Teatro

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A LAMINARIE TEATRO

|ENRICO PASTORE

Per il dodicesimo incontro di Resistenze artistiche ci spostiamo da Cagllari alla periferia di Bologna, alla cupola del DOM nel quartiere del Pilastro, per incontrare Bruna Gambarelli di Laminarie teatro.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

DOM la cupula del PIlastro sede di Laminarie Teatro

D: Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

L’emergenza sanitaria ha modificato radicalmente le azioni culturali che solitamente mettiamo in atto per DOM la cupola del Pilastro. DOM è uno spazio fondato da Laminarie nel 2009 dedicato ai linguaggi del contemporaneo, e per questo luogo curiamo solitamente due rassegne all’anno, ospitiamo artisti in residenza, organizziamo vari altri appuntamenti dedicati alla memoria del rione e del paesaggio urbano periferico. Ogni attività prevede il coinvolgimento delle realtà che operano nel territorio del Pilastro, area della città dove sussistono fragilità di carattere economico sociale e culturale, con le quali collaboriamo da sempre. Il DOM è un luogo di prossimità che ha costruito il proprio pubblico attraverso lo scambio di esperienze con gli abitanti del rione e con il coinvolgimento di operatori culturali, artisti e studiosi.

Nel febbraio del 2020 abbiamo interrotto come tutti le attività e sospeso la programmazione di Onfalos infanzia al centro, festival dedicato ai bambini alle bambine e agli adolescenti. In questa fase di totale isolamento abbiamo pensato che il teatro del rione, al pari di altre realtà presenti sul territorio, dovesse occuparsi dell’emergenza e abbiamo quindi predisposto materiali affinché i cittadini e le cittadine potessero fabbricarsi mascherine (allora introvabili) e abbiamo fornito, nel limite delle nostre possibilità, cibo e materiali didattici alle famiglie. Abbiamo collaborato con altre realtà del territorio per fronteggiare l’emergenza non solo sanitaria ma sociale ed economica.

Nell’ottobre del 2020 abbiamo dovuto interromper la rassegna Scartare a due giorni dalla sua inaugurazione. Abbiamo offerto a tutti i lavoratori (artisti e tecnici) coinvolti nella rassegna il compenso pattuito nonostante il blocco delle attività pubbliche.

Da subito è stato evidente che la continua l’interruzione delle relazioni umane avrebbe comportato difficoltà nella ripresa delle attività in presenza.

Era importante per noi cercare di mantenere acceso un rapporto con artisti pubblico ma abbiamo rinunciato immediatamente a qualsiasi proposta di teatro in streaming.

Così abbiamo attivato altre iniziative tra cui:

  • Saluti dal Pilastro

Grandi manifesti affissi in tutta la città con fotografie storiche e contemporanee del rione Pilastro tratte dall’archivio digitale di Comunità del Pilastro curato da Laminarie;

  • Cartoline da un luogo memorabile

Stampa di 20 esemplari di cartoline postali che ritraggono il rione Pilastro dalla sua fondazione (1966) ad oggi e recapitate a tutti i cittadini e le cittadine del Pilastro;

  • Proiezione in piazza Maggiore delle immagini tratte dall’Archivio in collaborazione con la Fondazione Cineteca di Bologna;
  • AmpioraggioTV

Realizzazione di una web TV. Trasmissioni in diretta e in differita da luoghi diversi del rione. Realizzazione di n. 100 diversi servizi (News, Urbanistica, attività culturali, informazioni sulla medicina territoriale, interviste ai cittadini e agli amministratori, servizi realizzati dai bambini dalle bambine e dagli adolescenti). Finanziato dal bando INCREDIBOL 2020;

  • Realizzazione e- book ANNI INCAUTI. L’invenzione di DOM la cupola del Pilastro. Edito da CUE Press https://www.cuepress.com/catalogo/anni-incauti;
  • Incontri a distanza con i bambini e le bambine per apprendere tecniche di montaggio video e poter partecipare alla web TV ampioraggio;
  • Laboratori in presenza con gli adolescenti seguiti nel progetto

”Stanze educative”

  • Rassegna DAVVERO nel parco condominiale del Polo Panzini adiacente a DOM (Incontri, letture, esiti dei progetti di impresa e delle attività laboratoriali curate con i servizi educativi e con la Fondazione Cineteca di Bologna);
  • IL PATTO lettura pubblica della Costituzione – XII edizione;
  • Letture/spettacolo gratuite rivolte a tutti gli alunni dell’Istituto Comprensivo 11 (scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado);
  • Pubblicato il nuovo numero della rivista cartacea Ampio raggio esperienze d’arte e di politica

http://www.laminarie.com/index.php/ampio-raggio-numero-nove

  • Abbiamo piantato e curato 18 alberi;
Ampioraggio TV

Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e la tua attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Abbiamo dedicato la maggior parte delle nostre energie all’attività di produzione. Dal lavoro dei mesi appena passati è nata la nostra nuova produzione Invettiva inopportuna che, nel rispetto di tutte le norme previste per il contenimento della pandemia, ha debuttato nello scorso autunno in coproduzione con ERT/Teatro Nazionale.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Le istituzioni a nostro parere, dopo una fase iniziale in cui sembrava possibile una collaborazione effettiva, hanno agito in modo scomposto senza creare tra loro un vero coordinamento. Nel 2021 LAMINARIE ha ricevuto risposte negative sui finanziamenti da:

1- Bando INCREDIBOL 2021! ASSEGNAZIONE SPAZI

ESITO NEGATIVO

2 -REGIONE EMILIA-ROMAGNA L.R.37/94 – PROMOZIONE CULTURALE

ESITO NEGATIVO

3 – COMUNE DI BOLOGNA – PROGETTO SPECIALE

ESITO NEGATIVO

4 – FONDAZIONE DEL MONTE

ESITO NEGATIVO

5 – MINISTERO – NUOVA ISTANZA FUS

ESITO NEGATIVO

6 – QUARTIERE SAN DONATO-SAN VITALE _ Assegnazione spazi

ESITO NEGATIVO

Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Ci troviamo in un momento decisivo per la continuazione dell’esperienza di Laminarie a DOM. E’ evidente, infatti, che le decisioni politiche che prenderanno gli amministratori nei prossimi mesi determineranno le attività del prossimo triennio. A Bologna in particolare si attendono le risposte anche della Regione Emilia-Romagna e dell’Amministrazione comunale che dovrà rinnovare per i prossimi anni le convenzioni con le realtà che operano in campo culturale. Siamo al terzo inverno in pandemia e non crediamo che per le associazioni, già in difficoltà a causa di una strutturale mancanza di contributi adeguati, possano continuare operare a stretto contatto con i territori, possano dare continuità a esperienze di qualità se non adeguatamente supportate.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Nonostante le molte e giuste voci di protesta, forse non sufficientemente unite, il decreto è uscito sostanzialmente invariato (per certi versi peggiorato) con scadenza per la consegna delle richieste al 31 gennaio: questo fatto basta per far comprendere la distanza siderale tra chi amministra i fondi pubblici e le realtà che operano professionalmente in ambito teatrale.

Non è bastata neppure una pandemia per far comprendere quanto quel decreto sia inadeguato.

Crediamo che, nella confusione paralizzante e nella convinzione che fosse impossibile trovare una via di uscita, in molti si siano concentrati sulla ripartenza sul rispetto dei parametri che ti garantiscono i contributi pubblici senza dedicare il tempo sufficiente alla stasi nella quale eravamo comunque immersi. Chi poteva ricominciava spesso senza un vero progetto alimentando così la falsa credenza che i teatri “grandi” possano esistere senza i “piccoli”.

Non siamo stati capaci di far valere i diritti dei lavoratori dello spettacolo così come non siamo stati capaci di trovare una nuova via.

Non siamo stati capaci di fermarci veramente, di pensare, di agire.

CHI SIAMO

LAMINARIE/DOM la cupola del Pilastro

La ricerca di Laminarie si è posta fin dalle sue origini in relazione con linguaggi artistici quali le arti visive, l’architettura, il cinema, la letteratura, approccio che si manifesta sia nell’espressione teatrale – con atti performativi e spettacoli che producono un linguaggio scenico originale, declinato anche in una relazione con l’infanzia – sia nello sviluppo di percorsi in grado di intrecciare pubblici differenti. Impegnata anche nella produzione di opere di videoarte, la compagnia realizza dialoghi culturali con diverse realtà europee sviluppando i propri progetti su un piano internazionale. LAMINARIE ha sede operativa a DOM la cupola del Pilastro, spazio creato dall’ associazione in convenzione con il Comune di Bologna nel 2009.DOM è un luogo in cui la ricerca teatrale è strumento di relazione con gli altri linguaggi artistici e con un territorio ricco di culture diverse è un laboratorio delle arti immerso in un quartiere popolare della città di Bologna. DOM ospita da residenze creative dalla sua fondazione.

http://www.laminarie.com/

Simonetta Pusceddu

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A SIMONETTA PUSCEDDU

Per l’undicesimo incontro di Resistenze Artistiche torniamo in Sardegna, più precisamente a Cagliari per incontrare Simonetta Pusceddu, anima forte ed energica, di Tersicorea e del Festival Cortoindanza, e della rete Med’arte.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Lucrezia Maimone in La balsa de Piedra Residenza Artistica

Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

La difficile situazione venutasi a creare a seguito dell’emergenza pandemica da covid19 ha avuto un forte impatto sul settore artistico, culturale e dello spettacolo dal vivo nel suo complesso. Ho ritenuto comunque importante non rinunciare a portare avanti le attività che potessero contribuire a sostenere i giovani artisti e i loro progetti di creazione. Pur in questo nuovo scenario di difficoltà mondiale, siamo riusciti comunque a portare a termine tutte le attività ri-calendarizzando i nostri programmi al fine di realizzare le attività, mantenendo invariati, l’identità, la struttura generale dei progetti di Residenza Artistica.

Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e la tua attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Il progetto di residenza Interconnessioni si basa sulla riappropriazione di siti emblematici, con l’obiettivo di rivalutare la ricchezza del patrimonio culturale nel senso più ampio, al fine di toccare gli aspetti tangibili (siti archeologici, industriali o naturali) e quelli più intangibili come l’artigianato e tradizioni, o conoscenze e pratiche del territorio prescelto. Prendendo in considerazione le peculiarità che caratterizzano il luogo, il progetto di residenza artistica Interconnessioni legittima un lavoro di ricerca su linguaggi pluridisciplinari immersi in quelle che sono le peculiarità identitarie della Sardegna. Esso si basa su sistemi di sperimentazione site specific e sul concetto di interazioni corpo/spazio circoscritte, strategie finalizzate alla riattivazione della memoria e identità di ciascun sito, allo stesso tempo per reinterpretarlo e raccontarlo attraverso i linguaggi contemporanei.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

La presenza di un elemento identitario forte, quale il patrimonio geografico e culturale della Sardegna, costituisce l’elemento fondamentale per innescare un percorso virtuoso di sviluppo economico-culturale. La prospettiva di sviluppo dei progetti declinati secondo questa peculiarità, ha l’attesa finale di creare una forma speciale di collaborazione sinergica – amministrativa culturale – tra i territori coinvolti e adiacenti, al fine di avviare azioni di sviluppo integrate e condivise. Tale progettualità si è inserita in quel piano di politica territoriale e culturale, di conversione degli “ex luoghi e a interventi di bonifica e ristrutturazione di aeree e edifici di memoria storica, piano già attivo nel nostro territorio e all’interno del quale il nostri progetti si inseriscono sinergicamente e coerentemente, grazie anche al sostegno dei diversi enti pubblici territoriali locali. L’impatto emozionale e di coinvolgimento delle comunità coinvolte, nonché la fiducia da parte degli enti pubblici territoriali e delle comunità di riferimento a sostenere, offrire e incoraggiare i nostri progetti, ha aiutato a superare il momento di crisi economica provocato dai vergognosi tagli e ritardi di elargizione dei contributi regionali. Diciamo che la soddisfazione e l’ospitalità, la condivisione e l’accoglienza ottenuta dalle comunità ospitanti, ha sostituito la preoccupazione economica!

La balsa de Piedra Residenza Artistica

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?

La strategia del decentramento dell’arte, con la fondazione di punti d’incontro artistico, di scambio di esperienze individuali e collettive e di relazioni tra artisti con il pubblico del territorio regionale locale, ha posto le basi per la creazione di un circuito virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela dei beni e occupazione, basato sulla valorizzazione delle eccellenze locali e sul potenziamento di nuovi flussi di scambio culturale. L’idea centrale è e sarà quella di creare strategie di sviluppo e miglioramento della vita dell’individuo, non inteso solo in termini economici o, ancor più restrittivamente, come crescita economica, bensì in modo più esteso come ampliamento delle opportunità che sviluppano benessere. Questo processo agisce riorganizzando gli spazi sociali, facendo emergere nuove pratiche di cooperazione e competizione, nuove espressioni culturali transnazionali e translocali: e tutte queste nuove forme richiedono ed evocano nuove prospettive teoriche, nuovi immaginari culturali, nuovi orizzonti di frontiera. Credo ancora in qualche piccola speranza!

Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

In generale la legislazione attuale ha falsamente sottolineato il valore incommensurabile della persona con falsi principi di solidarietà e di una cittadinanza attiva, ma ahimè vulnerabile. Il bene comune dipende si dai governanti, ma noi siamo complici passivi e cofautori di questo disastro. Nel mio cuore prevale il problema di un futuro umano diverso, una riflessione sulla pandemia vissuta dagli altri, nei paesi e nelle comunità più deboli e su quella vissuta dai nostri anziani. Non riesco a prescindere da questo sentimento di pena per l’umanità tutta, dunque non voglio preoccuparmi se siano contemplati o meno stati di eccezionalità, poiché credo che la vita deciderà prima o poi di piegare anche i più stolti a uno stato di coscienza e come diceva mia madre: necessità fa uomo saggio

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

È necessario sperimentare modelli di sviluppo che assicurino all’umanità un futuro di istituzioni che costruiscono un quadro di norme intelligenti, volte assicurare il bene comune che è la vita di tutti noi. Il teatro costituisce una piccola porzione di questo universo alla deriva che urge di un rinnovamento totale, uno sviluppo sostenibile ambientale e sociale e che oggi unifica le giovani generazioni in ogni parte del mondo. In sostanza tanta fiducia nelle piccole comunità in cui ancora vige il principio della condivisione e attenzione verso i propri abitanti e tanta preoccupazione del malcostume che regna nella politica europea.

Breve cenno su chi siamo:

La Tersicorea da anni si distingue per le sue forti connotazioni didattico/formative e per l’attivo impegno in funzione della diffusione di una nuova pedagogia della danza e del teatro rivolta al sostegno dei giovani artisti in dialogo costante con le realtà consolidate in tutto il territorio locale, internazionale ed extra europeo. In questo contesto la Tersicorea e il suo Spazio Teatrale T.off garantiscono occasioni di sperimentazione, ricerca confronto, di scambio intergenerazionale e di metodologie e poetiche, attraverso residenze artistiche e rurali in forma di “cantiere”, di cui Tersicorea è promotrice in Sardegna e sostenitrice sin dal 1996. Dal 2008 ha generato una rete Internazionale di interscambio: Med’arte che nasce come organismo libero e indipendente. I partner sostenitori di Med’arte concepiscono la loro azione e funzione di “messaggeri” dell’arte contemporanea nel mondo, agendo attraverso l’influenza delle nuove tendenze che il linguaggio della danza ha assunto nella storia dell’Europa, con la finalità di valorizzare e fare approdare in Sardegna quel filone centrale di sviluppo della produzione d’avanguardia che si è appunto sviluppato in Europa e nel mondo, con particolare attenzione agli artisti emergenti provenienti da paesi a rischio di pace o in cui sono in corso conflitti civili.

Antonin Artaud

LA VITA LA PAGHERÀ CARA: PAROLA DI ANTONIN ARTAUD

«È ora che gli iniziati accendano le lanterne», così diceva Antonin Artaud. Questa ingiunzione ricorda un racconto breve di Kafka. Si intitola Di notte. Parla di un popolo addormentato sulla nuda terra e di un solo uomo che veglia con la lanterna accesa: «Perché uno deve vegliare. Uno deve esserci».

Quel vegliare per tutti Antonin Artaud lo pagò a caro prezzo. Una vita di martirio e di dolore, di isolamenti e camice di forza, di elettroshock e avvelenamenti, di fraintendimenti e tradimenti, per non dimenticare quelle tossi quando tornò a parlare in pubblico, quei colpi di tosse che riteneva sfregi ai misteri evocati dalle parole magiche imparate a costo di mille crocifissioni giornaliere.

In quest’oggi dominato dalla crisi sanitaria, il corpo glorioso, ferito e sfregiato di Antonin Artaud ci ricorda l’essere, il corpo, niente altro che un piano attraversato dal dolore e che tale corpo non ha né patria, né dei, né sessi, né convinzioni politiche, né padroni né servi, è corpo è basta, fatto di liquidi, di deiezioni, sangue e sperma, organi mai al posto giusto perché non c’è un ordine precostituito.

Corpo è solo un luogo attraversato dalle forze che squassano e dominano l’essere. Niente altro. E per questo è misterioso e sacro, e parla una lingua oltre il linguaggio, come un condannato al rogo che disegna geroglifici tra le fiamme .

Il 23 gennaio 2022 Fuori Orario cose(mai) viste ha dedicato una notte intera ad Antonin Artaud e a ciò che ad Artaud si riferiva (per esempio le quattro meravigliose lezioni di Carmelo Bene Quattro momenti su tutto il nulla registrate per la RAI nel 2001, e il fantastico racconto di fantapolitica di Alberto Grifi Dinni e la normalina ovvero la videopolizia psichiatrica contro i sedicenti nuclei di follia militante del 1978).

Il titolo della selezione è evocativo e ambiguo: puissanse de la parole, controverso è infatti il rapporto di Artaud con la parola: sfiducia in quella diretta verso un obiettivo di senso, qualsiasi senso; estatica ammirazione insieme a rabbioso utilizzo per quella magica, significante, evocativa delle forze oscure nelle pieghe di ciò che chiamiamo essere.

Paki Zennaro, Gianluca Bottoni, Pierpaolo Capovilla in Artaud (movimenti, suoni, versi e soffi)

Artaud (Movimenti, suoni, versi e soffi) di e con Pierpaolo Capovilla, Gianluca Bottoni e il compositore Paki Zennaro, antologia di testi artaudiani tra Succubi e supplizi, Ci-git e les jeunes filles de cœur à naître presentato al Festival della poesia di Genova nel 2020 e riproposto in questa notte artaudiana dalla redazione di Fuori Orario è un bellissimo esempio di questa potenza della parola.

Si scorge in questo breve ma esaustivo florilegio, rabbrividendo certo e non per piacere, «l’insostenibile lotta che c’è sempre tra l’individuo forsennato e tutti gli altri». Si percepisce per un lungo momento l’esperienza di un uomo, prima di un grande artista, «violentato per tutta la vita», quasi suicidato dalla società ma che è riuscito, grazie alla fede negli uomini che pur tuttavia aveva, ad affermar gridando la sua verità, a lasciare un segno indelebile nel secolo passato e che può e deve ancora essere stella polare al teatro di oggi così spaesato e perso.

Antonin Artaud

Oggi che si è tornati ad aggrapparsi alle parole piene di senso, nell’illustrare il raccontino, meglio se datato e accettato, impedendosi la straordinaria unicità del teatro in grado di evocare senza dire, evocar facendo, come gli antichi Veda capaci di elaborare un pensiero in cui parole e azione erano congiunti potentemente nel dire al di là di ogni significato, la parole di Artaud sono quanto di più necessario si possa respirare. Nelle stanze chiuse e asfittiche del teatro contemporaneo si dovrebbe portare aria fresca recuperando le disperate invocazioni di chi come Antonin Artaud e Carmelo Bene hanno provato a farci percepire come il farsi dire, il lasciarsi parlare, come l’etimo vorrebbe, sia molto più efficace del discorrere e dell’argomentare nel rivelare la natura inconsistente dell’essere.

Pierpaolo Capovilla e Gianluca Bottoni riescono a far trasparire, anche grazie alle musiche di Paki Zennaro, quella lotta spasmodica di un uomo solo contro il mondo, contro una società già orientata verso una normalità mediocre e condivisa, per nulla tollerante alle eccezioni seppur geniali. I martiri e le sevizie sul corpo di Artaud traspaiono in tutta la loro violenza, ma si trasfigurano in violenta rivolta contro lo strapotere della società sul corpo, diventano canto straziato, tragico e sublime, non solo di Artaud, ma di tutti coloro che sono prigionieri del pensiero e categorie altrui, incasellati nell’esser ciò che non sono, violentati nelle loro diversità, impediti a manifestarsi in tutta la loro splendente unicità.

Antonin Artaud ha vigilato in tremenda sofferenza in una lunga notte in cui tutti dormivano. Uno doveva esserci. È ora di dargli in cambio e magari essere più di uno, perché le forze pronte a schiacciare chi non si allinea sono più forti che mai e i suicidati dalla società cominciano a essere un numero non più accettabile.

Gommalacca Teatro

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA GOMMALACCA TEATRO

Per il decimo appuntamento di Resistenze Artistiche ci dirigiamo in Basilicata per raggiungere Carlotta Vitale e Mimmo Conte, fondatori e direttori della Compagnia Gommalacca Teatro. Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Gommalacca Teatro – Carlotta Vitale Il diario di Sofia

Potete raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Il nostro lavoro culturale non si è mai fermato. In effetti il teatro, nella sua pratica quotidiana, non può interrompersi, è un fatto che avviene ogni giorno e che possibilmente abbiamo interrogato con più forza, e alle volte disperazione, nel corso di tutte le fasi, molto diverse, dall’inizio della crisi pandemica. All’inizio di marzo 2020 abbiamo visto sfumare letteralmente la programmazione estiva sulla quale stavamo lavorando con due progetti piuttosto grandi anche economicamente, legati a una nuova natura produttiva della compagnia e che esprimevano meglio il nostro modo di intendere la relazione tra scena, persone e spazio pubblico. Lì in quel punto ci siamo trovati “interrotti” non solo nell’annullamento di una data, ma proprio di un processo che dopo dieci anni aveva trovato un suo culmine nel 2019 con la Capitale Europea della Cultura e che aveva la necessità di essere accudito, sviluppato e finanziato.

Quella interruzione, in quel momento, ha significato ritrovarci con le armi spuntate, e nei mesi, sempre più consapevoli di dover ricominciare da un grado zero, da un minimo che potesse essere sostenibile lavorativamente e umanamente. Riguardo alla pedagogia la nostra scelta durante il primo lockdown è stata di tenere il rapporto con la comunità teatrale online ma solo per i mesi di marzo e aprile, poi la programmazione nella pedagogia e negli spettacoli si è messa del tutto in relazione con gli spazi intermedi, aperti e accessibili della città e dei comuni. L’acquisizione della pratica lanciata da Ippolito Chiarello del teatro in bicicletta (delivery theatre) è stato uno strumento poetico molto funzionale per ricostruire, e in alcuni casi creare, il rapporto perduto con le persone. I progetti Erasmus plus e le progettazioni in essere non si sono mai arrestati, anzi sono stati una leva psicologica e economica che ha stimolato nuovi dialoghi con le amministrazioni e le scuole. In fasi alterne è risultato utile poter collocare i dipendenti della compagnia in cassa integrazione e con il sostegno dei contributi extra-FUS siamo riusciti, con grandissime difficoltà, a mantenere una direzione.

Verso quali direzioni si è puntata la vostra ricerca e attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Progettazione, cura dei pensieri e tempo per farli crescere, cura delle relazioni con le persone (fruitori, partecipanti, interlocuzioni pubbliche) produzione sostenibile, contrasto della povertà educativa, contrasto delle discriminazioni per sesso, razza, lingua e religione, spazi pubblici, rigenerazione umana, ricerca cultura e documentazione del patrimonio culturale, nuovi linguaggi multimediali per la scena, ricerca su linguaggi interattivi e sensoriali per le fasce dei più piccoli, ricerca sulle drammaturgie originali, nuove alleanze artistiche.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Siamo stati ministeriali nel periodo dal 2012 al 2014, poi le nostre esigenze e caratteristiche produttive non erano più assimilabili alla lettura che il Ministero della Cultura fa delle realtà produttive italiane. Negli anni tra il 2015 e il 2019 grazie alla nuova legge regionale n.37 del 2014 alla quale stesura abbiamo contribuito insieme agli operatori lucani, la nostra compagnia è riuscita a trovare una sua giusta collocazione in termini di finanziamento pubblico mettendo in equilibrio il progetto e la produzione.

Dopo le elezioni del 2019, e il radicale cambio politico, il processo amministrativo si è “incantato” ovvero si è bloccato come sotto l’effetto di un incantesimo. Durante la fase pandemica in Basilicata gli operatori del settore teatro, cinema, danza, arti visive sono stati dimenticati senza alcuna interlocuzione e finanziamento previsto per legge che potesse aiutarci nella transizione verso le condizioni attuali. Ovviamente abbiamo lottato e richiesto con tutti gli strumenti leciti possibili la riapertura del dialogo. Alcuna vicinanza e comprensione, anzi nella angoscia delle spese a cui non si riusciva a far fronte e alla emorragia del pubblico, delle date e dei contatti, abbiamo dovuto tirare fuori i denti, mostrare i pungi e invitare allo scontro, forse era questo un linguaggio più decifrabile di quello della pace che preferiamo perseguire. Nel 2021 siamo stati riconosciuti dal Ministero come compagnia di innovazione per l’infanzia e la gioventù e l’apparato regionale ha riorganizzato le dirigenze, qualche piccolo passo senza tanto clamore e con rigore è stato fatto. Il dialogo tra lo Stato e la Regione in materia di Spettacolo dal Vivo manca.

Mimmo Conte La nave degli incanti

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il vostro pubblico?

Le strategie non sono state differenti da quelle che sempre abbiamo messo in campo nella ricerca della relazione con le persone: innovazione culturale e attivazione delle comunità attraverso il dialogo, l’indagine e la rappresentazione artistica. Ricerca della propria qualità artistica nei contesti in sui si opera, anche per interventi minimi e non preceduti da contatti con il pubblico, non smettere di farsi domande su chi compone il gruppo di persone a cui ti stai rivolgendo, con quali strumenti stai interagendo e studio, studio, studio delle nuove forme di contaminazione intorno alle metodologie e nuovi linguaggi delle scena.

Quali sono le vostre aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Yuval Noah Harari ci evidenzia in diverse occasioni che tra tutti gli “homo” il Sapiens è quello che è sopravvissuto perché capace di “immaginare”. Immaginare di creare città, regni, imperi, leggi, soldi. Su questo processo si costruisce l’aspettativa sul nostro futuro. La riflessione sull’avventurarci o meno nella tessitura ministeriale del prossimo triennio è stata lunga e dibattuta all’interno della compagnia, tanto da cercare confronti per sviluppare punti di vista e valutare pro e contro. Ci siamo fatti domande a proposito della nostra natura, della sostenibilità economica sull’ingresso dal 2023 nei cluster ministeriali. Abbiamo fatto e stiamo facendo un esercizio di immaginazione che si tradurrà in azioni sui territori. Il decreto con il suo funzionamento è “una parte” del grande lavoro che una compagnia come la nostra deve fare per “immaginare il proprio futuro”. “Una parte” con dei requisiti molto rigidi in cui per un terzo valgono il progetto e le idee, tutto il resto è personale assunto, spazi e quantità. La nostra aspettativa è quella di partecipare ad un processo di rinnovamento delle norme che possano dialogare con la realtà e soprattutto lavorare per rendere visibile l’evidente, imbarazzante, squilibrio territoriale per chi opera al Sud e nelle Isole. Noi non veniamo al Nord? Lo crediamo bene! La spesa dei trasporti incide al 40% nelle scelte di chi programma sia per chi vuole “salire” che per chi vorrebbe “scendere”.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la vostra opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Quello che non si fa:

Non si esce dalla propria personale paura di perdere tutto (cosa in realtà abbiamo da perdere? Abbiamo tutto! Non gli diamo il valore giusto però).

Non ci si prende cura.

Non si scrive e dice quello che per davvero si pensa.

Non si prende atto che non c’è un braccio a cui appoggiarsi (parafrasando Virginia Woolf).

Non si lavora sul desiderio, il proprio e quello del pubblico. Desiderio, non gusto o consuetudine. “Teatro” è una parola bellissima da pronunciare, è bellissimo parlarne, ma poi quanti escono di casa per andarci? Bisogna accettarlo per costruire nuove parole che si hanno voglia di frequentare.

Non si è potuto fare:

Prendersi tempo con serenità per affrontare il cambiamento, monopolizzati da regole quali-quantitative, regole contrasto Covid e angoscia per le sale vuote, che a capienza piena rimangono mezze vuote, nella maggioranza dei casi, non vale per tutti.

Mettere le basi è un processo lungo, lunghissimo. Ci vogliono strumenti di indagine, superamento delle proprie ambizioni personali, capacità di contestualizzare, ascolto, e e desiderio di mettere le basi. Alle volte non si riesce con i propri figli. Si fa un passo alla volta, con voci unite però. Chi immagina e scrive le leggi e le norme non spunta come un fungo da in giorno all’altro, si muove in un ecosistema storicizzato e rigido che legge la realtà con le stesse lenti da decenni. Per aprire un dialogo ai fini di un cambiamento normativo ci vuole spirito europeo, determinazione e desiderio democratico. Non so se nel grande sistema ci arriveremo mai, ma so che nel piccolo può avvenire lentamente.

Breve BIO:

Abbiamo fondato la nostra compagnia, Gommalacca Teatro, in Basilicata nel 2008.

Il punto di partenza è stata Potenza, la città base che con tutte le sue criticità ha contribuito a sviluppare una nostra caratteristica peculiare: la capacità di mettere in relazione le persone e gli spazi attraverso il teatro, le discipline performative, l’arte e la co-creazione lontani dai grandi centri di produzione.

Contatti: c.vitale@gommalaccateatro.it

Grandi speranze!

GRANDI SPERANZE! IL TEATRO ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO

Quando quasi due anni fa è iniziata la pandemia il mondo dello spettacolo dal vivo è stato squassato da una legione armata di stati d’animo contrastanti: shock per la chiusura dei teatri (che in Italia non avveniva da tempo immemore); ansia per le condizioni economiche delle compagnie, dei festival, degli spazi di cultura; tensioni riformatrici verso la regolarizzazione dei diritti dei lavoratori, e tentativi di innovazione per lo più votati all’esplorazione del mondo digitale, unico spazio agibile per molti mesi, ma luogo pericoloso e snaturante la concezione stessa di incontro dal vivo; euforia nelle riaperture, accompagnata dalla voglia di dimenticare quanto passato, seguita da una brusca e inevitabile battuta d’arresto nelle riflessioni sullo stato miserevole delle cose e sulle relative possibili riforme; poi nuovamente la depressione invernale con nuove chiusure nelle varie zone rosse a cui è seguita una nuova esuberante attività affetta, in molti casi, da cattivo gusto nello sbandierare ridicoli sold out a mezza sala o nell’esultanza smodata per l’entrata nel FUS laddove vi erano molti che languivano o si spegnevano.

Da ultimo, in questo inverno del nostro scontento che sembra non avere fine, siamo attanagliati dall’incertezza che accompagna un triennio dominato da una pessima legge a regolare l’attività di coloro in grado di rispondere ai paletti imposti dagli algoritmi e dai minimi ministeriali. La fragilità d’altra parte è invece sempre più regina dell’indipendenza e dell’autonomia. Si riducono gli spazi d’azione e di finanziamento, perché si sa che i soldi chiamano i soldi, e infine le possibilità di distribuzione si restringono visto che con la nuova legge si è voluto far entrare in concorrenza gli Stabili e i Tric nelle nicchie di mercato per ora riservate agli indipendenti e agli artisti che lavorano sulla prossimità territoriale.

theophile van Rysselberghe – La Signora Edmond Picard Nella Confezione Del Teatro De La Monnaie

Per tutti la situazione pandemica a complicare la già difficile situazione che spinge molti a annullare e differire senza più avere la speranza di sostegni o periodi “in deroga”.

Tutto ciò ci porta a considerare questo periodo storico come il più difficile e spinoso che il mondo teatrale (nel più ampio e accogliente senso del termine) si trova ad affrontare dal secondo conflitto mondiale. A complicare il tutto il trovarsi a contrastare un tale frangente storico divisi su un fronte balcanizzato in mille posizioni diverse e antitetiche, a fronte di un atteggiamento politico e istituzionale graniticamente unito e deciso a ignorare la maggior parte delle esigenze e richieste di riforma radicale del settore.

Vi è dunque una sostanziale confusione che serpeggia, non nascosta come vipera nell’erba alta, ma evidente e terribile come un godzilla che tutti cercano di ignorare: quali effettive funzioni può svolgere lo spettacolo dal vivo oggi nella società neocapitalista orientata a digitalizzare qualsiasi aspetto della vita quotidiana, e per nulla interessata a processi artistici a lunga lavorazione, ad alto rischio, per di più effimeri nel senso di difficilmente commercializzabili in una società di massa?

Sono domande scomode a cui bisognerebbe rispondere, questioni che sono state solo sfiorate e poi ignorate in questi due anni, perché considerate dai più alla stregua di lanugini ombelicali e non punti cardine su cui ruota il senso ultimo dell’agire di un’intera categoria di artisti e lavoratori. Ora sembra tardi, ora sarebbe il momento dell’azione, ma non abbiamo idea di come affrontare tutte queste sfide.

Forse si dovrebbe fare un primo passo avendo la forza di osservare la situazione con occhio limpido, senza retoriche e pregiudizi, a viso aperto, costi quel che costi. Bisognerebbe dirsi l’amara verità con lucida onestà intellettuale: il teatro in tutte le sue forme non è più centrale nella vita della società e probabilmente non lo sarà per lungo tempo. Inoltre non ha una funzione chiara ed evidente nel corpo sociale e si rivolge a una fetta assolutamente minoritaria della popolazione. Gli appelli al pubblico a tornare a teatro o i sussurri di chi ammette avere le sale semivuote sono lì a testimoniare un abbandono di cui nessuno vuol prendere atto.

Ne Il tempo ritrovato, ultimo volume de La Recherche proustiana, vi è un passaggio colmo di grande poesia venata di tristezza e crudeltà, quello in cui la grande attrice, la Berma, ormai morente, si dona per un’ultima matineé per recitare il suo grande cavallo di battaglia La Phèdre di Racine, dono non accolto in quanto vi partecipa un solo giovanotto. L’intera bella società parigina è altrove, corsa alla festa della principessa di Guermantes. L’attrice è sola, con l’unico spettatore, sua figlia e il marito tutti presi dalla voglia di raggiungere gli altri nel luminoso palazzo di Guermantes e con il sorriso agro per dover invece accontentarsi di pranzare con la vecchia signora. La sublime attrice che per anni aveva accolto l’entusiasmo del pubblico ora è sola, abbandonata dal suo pubblico e tace.

Come siamo lontani dalle immagini dei primi libri in cui la Berma appare in tutto il suo splendore sulla scena, donna sublime che incarna la vera arte in quella vita effimera, scorrevole e fuggitiva, che sorge sulle assi di un palcoscenico. Come è distante la sublime visione del teatro-acquario dove dalla penombra dei palchi emergevano, come divinità acquatiche, le più importanti personalità dell’alta società attratte dall’arte della grande attrice (dietro il cui ritratto si nasconde la figura di Sarah Bernard).

Oggi ci troviamo tutti a recitare la parte della Berma, e questo al di là delle posizioni di chi afferma il pubblico essere numeroso e affettuoso recitando la frase come un mantra quasi implorando una divinità consolatoria a un soccorso che può venire solo dall’intervento improbabile di Dioniso in persona. Come dice Cobb nell’incipit di Inception: non vi è parassita più potente di un’idea radicata nel nostro cervello. Essa è quasi impossibile da rimuovere.

Purtroppo però bisogna prendere coscienza di essere una riserva indiana, un popolo in via d’estinzione e se non vogliamo suonare il De profundis come la Berma, occorre prendere atto di questa situazione, domandarsi le cause e trovare delle soluzioni che portino a un’inversione di tendenza. E bisogna farlo ora, in fretta e il più uniti possibile.

Federico Zandomeneghi Il palco

Certo la scena nel suo complesso non avrà mai più la centralità assunta nei tempi passati, non vi sarà per molto tempo un Proust che scriverà pagine immortali sull’arte dell’attore all’interno di un romanzo capolavoro, né un Degas o un Toulouse-Lautrec a ritrarre scene di vita a teatro. Dobbiamo prendere coscienza di questo con grande onestà intellettuale e abbandonare per sempre le retoriche sulla centralità del teatro nella società e sulla sua necessità imprescindibile. Dobbiamo ripartire, azzerare le posizioni, tornare a concepire utopie, muovere verso nuove terre, pensare che il cambiamento non solo è possibile ma necessario. Se è futile rimanere attaccati a immagini del passato, è invece assolutamente necessario muovere passi verso un futuro ignoto da costruire, volenti o nolenti.

Proust scrive: «ogni volta che la società è momentaneamente immobile, coloro che in essa vivono si immaginano che non avverrà più nessun cambiamento, così come, avendo assistito all’avvento del telefono, non vogliono credere all’aeroplano». Immaginare il futuro è impresa titanica e ora sembra vi sia solo una solida rassegnazione di fronte agli eventi, una morsa congelante e depressiva capace di impedire non solo di vedere un futuro diverso e possibile, ma persino abile nell’impedire la cosa più semplice: comunicare la bellezza del proprio mestiere, la gioia del creare un farfalla pronta a vivere per una notte soltanto per scomparire poi nel buio delle quinte.

Da più parti si manifestano posizioni sconsolate e sconcertanti: alcuni come Rutilio Namaziano rimpiangono i tempi felici e ripetono, come snocciolando un rosario, che Roma brucia, senza nulla fare se non guardare l’incendio e dire a sé e agli altri: io non ho colpa; oppure si ostenta una ferrea realpolitik che neanche Bismark si sognava, tesa ad accettare lo stato di fatto e provare a ottenere il meno peggio (per Carmelo Bene, lo ricordiamo, il meglio del peggio era il pessimo!); oppure si stringe i denti convincendosi che tutto tornerà come prima sperando nel trascorrere rapido di una tempesta della durata di due anni interi.

È meglio non farsi troppe illusioni. Il teatro, la danza, il circo voluti dalle istituzioni non sono quelli che ha in mente la comunità teatrale: non più forma d’arte d’alto livello, ma intrattenimento minore da sostenere in qualche modo finché resiste la riserva indiana. Quindi, se si vuole qualcosa di diverso, va immaginato e costruito tirandosi su le maniche e non aspettandosi che sia lo Stato a risolvere tutti i problemi con la prossima legge. Se si vuole un futuro bisogna costruirselo.

Edgar Degas Caffé concerto agli Ambassadeurs

In questa selva oscura e assai confusa vi sono molti silenziosi che lavorano solitari, immaginando soluzioni proprie, per mantenere vivo il proprio sogno (e non è retorica questa parola perché ognuno di noi quando ha iniziato il suo viaggio nel mondo teatrale l’ha fatto inseguendo un sogno di libertà e creatività, altrimenti andava a lavorare in posta o in banca, con tutto il rispetto per queste professioni). La solitudine però non è una soluzione. Nel tempo delle reti solo condividendo pensieri e pratiche si può salvarsi. Certo bisogna superare alquanti pregiudizi che per decenni hanno costretto tutti a guardare al proprio orto, vedendo il vicino non come un collega ma come un nemico. Solo una certa unità d’intenti può riformare le modalità e costringere le istituzioni e prenderne atto, così come in altre epoche solo l’unità dei lavoratori ha costretto il capitale a concedere diritti e salari più equi e dignitosi.

Come si esce dunque da questo pantano? Nel romanzo di Dickens Grandi speranze troviamo due personaggi: Pip, il ragazzino che si trova a ereditare una fortuna senza sapere da dove arrivi, ed Estella un’adolescente adottata e allevata da Miss Havisham, una donna vecchia, inacidita dall’abbandono del suo grande amore e che vive perennemente in una stinta e ingiallita veste da sposa, in una sala ombrosa al cui centro troneggia, su un tavolo pronto a trasformarsi in letto di morte al momento opportuno, il dolce di nozze ammuffito dagli anni e roso dai topi.

Sia Pip che Estella non raggiungeranno le loro grandi speranze, il primo perché, falsamente illuso e abbagliato dalla ricchezza giunta dall’alto e inaspettata, rinuncia alla semplicità che sola avrebbe potuto renderlo veramente felice; ed Estella, allevata all’ombra di una felicità smarrita e rimpianta, non saprà trovare alcuna contentezza per sé per non averla mai potuta nemmeno sognare o immaginare.

Oggi abbiamo dunque una responsabilità di fronte alle nuove generazioni: non vanificare le loro speranze con parole e riti vuoti di significato, non obbligarli a credere che le vie dei bandi e dei rendiconti sia l’unico modo per sostentarsi e far fiorire il proprio talento, e soprattutto non farli crescere all’ombra del rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere ma non è stato e non sarà. Il rischio altrimenti è far sorgere schiere di Pip e di Estella, delusi nelle loro grandi speranze e incapaci di creare un futuro all’arte del teatro. Una schiera di giovani cinici pronti, pur di avere un posto al sole, ad assolvere qualsiasi richiesta e tutto ciò in barba alla ricerca artistica.

La nostra responsabilità è provare a costruire un futuro diverso, basato su altri presupposti purché solidi. Inventare nuove funzioni allo spettacolo dal vivo e soprattutto essere nuovamente capaci di comunicare la forza e la bellezza di un’arte che ha attraversato la storia dell’umanità per circa tremila anni e se ciò è avvenuto nonostante le pesti, le cadute di imperi gloriosi, le invasioni barbariche, la Guerra dei Cent’anni, dei Trentanni e di due conflitti mondiali, ci saranno state delle profondissime ragioni. Vanno solo ritrovare e reinventate. Tutto questo non è solo una responsabilità, è un’urgenza non più differibile. A volte questa nuova terra è molto più prossima di quel che si pensa. Come dice Proust in un passo memorabile: «una terra incognita visibilissima in tutte le sue più impercettibili sfumature a coloro che l’abitano, ma che è notte, puro nulla per chi non vi penetri e la lambisca senza sospettarne vicino a sé l’esistenza». Come per l’isola di Lost, per vedere questo nuovo continente, bisogna solo crederci e muovere un passo in una direzione differente.

Teatro di Sacco

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A TEATRO DI SACCO

Per il nono appuntamento di Resistenze Artistiche, andiamo nel cuore verde dell’Italia e precisamente a Perugia, in Umbria per incontrare il direttore Roberto Biselli e l’organizzatrice Biancamaria Cola, i quali organizzano insieme anche la rassegna estiva Todi Off all’interno del Todi Festival.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Potete raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conducete in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

È stato molto difficile, specialmente riprendersi dopo il secondo lockdown poiché l’attività in presenza è fondamentale per gestire “a cuore caldo” la nostra attività.

Noi dirigiamo dal 1995 uno spazio teatrale perfettamente agibile in pieno centro storico, a Perugia che è il fulcro del nostro agire artistico, sede di laboratori, incontri, progetti, nonché di una rassegna di teatro e danza d’autore INDIZI. Purtroppo, a causa del contingentamento, non è stato possibile condurre alcuna attività e abbiamo dovuto gestire molte iniziative on line, modalità di sopravvivenza certo, ma non funzionale a ciò che riteniamo il contatto emotivo con la nostra “utenza”.

Verso quali direzioni si è puntata la vostra ricerca e attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Come detto abbiamo sperimentato le modalità webinar che continuiamo ad utilizzare ancora adesso, con molti dubbi e perplessità. Già il fare teatro è divenuto, storicamente nel nostro paese, un progetto di nicchia dell’agire sociale, fargli dunque perdere anche quella necessità umana e fisica gli ha certamente “fatto del male” aggravando uno stato di cose già da tempo in grave crisi.

Certamente aver partecipato ad una serie di incontri on line, di rivendicazioni, di definizione di istanze comuni, di riconoscimento con altri artisti e operatori sull’intero territorio nazionale, ha contribuito a sopravvivere a quest’assenza, salvo poi riscontrare che il livello di consapevolezza del nostro settore latita in generale e di fatto solo lo stato di necessità economica aveva costruito una solidarietà alla fin fine abbastanza volatile.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Qui in Umbria il teatro, lo spettacolo dal vivo in generale, non è certo un settore privilegiato e le poche istituzioni, che dovrebbero occuparsi della sua tutela e sviluppo, dovrebbero sostenere, oltre al Teatro Stabile, anche medie e piccole realtà culturali che costituiscono l’humus del nostro territorio. Ci si auspica che, in un futuro prossimo, la politica del Paese e, di conseguenza quella locale, possa intervenire in maniera funzionale alla sostenibilità del settore.

Teatro di Sacco, già dal primo lockdown, ha avuto l’attenzione dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Perugia con cui ha collaborato alla realizzazione di pillole di teatro, presentate al pubblico attraverso il webinar. Questa attenzione continua anche nelle azioni future che stiamo realizzando come la Stagione INDIZI e altre attività di produzione teatrale e di eventi.

Va sottolineato però che, in generale, l’attenzione per gli spazi o le compagnie indipendenti è carente, in più, da sempre, esiste una mancanza di relazione attiva fra i soggetti che operano con grande difficoltà nei vari territori, così che l’isolamento e la separazione, che di fatto caratterizzano questo settore, non contribuiscono a creare un terreno comune di sostegno e di vicinanza e una rete funzionale alla creazione di un progetto “altro.”

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?

La ripresa delle attività dal vivo – spettacoli, laboratori, incontri – è stata molto funzionale nel riprendere il filo con il pubblico, abbiamo riscontrato, infatti, una grande volontà di partecipazione e di voler essere di nuovo coinvolti in un progetto attivo.

Nell’assenza il web ha funzionato da collante e la buona memoria delle attività proposte negli anni precedenti ha fidelizzato l’attenzione del pubblico, anche attraverso pratiche parallele, ad esempio serie in webinar realizzate in collaborazione con gli Enti Locali, corsi dedicati al mondo della formazione lavorativa, del mondo delle imprese, dei corsi di formazione post diploma superiore.

In compagnia dei lupi, Laboratorio Teatro di Sacco 2019-2020

Quali sono le vostre aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Diciamo che continuiamo ad essere ottimisti ma anche realisti: il nuovo decreto non risolverà la problematica legata agli investimenti del comparto culturale. In dettaglio: se si considera la fattispecie legata alla produzione teatrale di teatri medio-piccoli, un grande problema resta la gestione dell’attività di distribuzione. La pandemia ha solo scoperchiato il vaso di Pandora: le difficoltà del settore dello Spettacolo dal Vivo permangono a prescindere o meno dallo stato di emergenza dovuto alla pandemia. Si tratta di capire, oltre ai sostegni, come ripensare ad un sistema virtuoso che possa garantire sostenibilità al nostro settore.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la vostra opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Come sempre, in Italia grande è la disattenzione verso il mondo delle periferie, come se la produzione culturale si concentrasse esclusivamente nelle grandi città. Esistono una serie di attività collaterali che rendono vivo e attivo un professionismo teatrale gestito con un profondo legame con il territorio, capace di produrre iniziative e progettualità che forse nei grandi ambiti metropolitani avrebbero un tempo e un luogo diverso nel costruirsi.

Il nostro progetto si articola non solo con repliche di spettacoli, ma con continua attività laboratoriale, di corsi dedicati a diversi comparti della formazione e comunicazione, oltre a un avviata e concreta progettualità europea e alla costruzione di eventi site specific, rassegne, festival e incontri non quantificabili sul piano delle logiche ministeriali, ma davvero cuore pulsante di un lavoro professionale che si muove su un intero anno di attività.

Costruire dei nuovi parametri per l’accesso ai contributi del Ministero della Cultura per supportare la produzione e l’intera progettualità di soggetti che operano in ambiti poliformi – quanto mai necessari per una sorta di resistenza globale delle arti performative in Italia- è assolutamente indispensabile. Un patto di sostegno per le periferie è una delle poche strade percorribili per restituire dignità lavorativa al di là di logiche spesso legate ad una rendicontazione numerica che non restituisce la forza e l’impatto dell’intera progettazione sull’intero territorio nazionale.

Allo stesso tempo anche il mondo degli osservatori critici del fenomeno teatro in senso lato, pur essendo ormai ridotti di numero e di reale impatto sulla “pubblica opinione”, dovrebbe dare un segnale forte verso una considerazione più allargata e realmente più attenta a raccontare il presente, come detto molto spesso “agito” in luoghi periferici, meno canonici del paese ma spesso degni di una maggiore “narrazione”.

CHI SIAMO

Il Teatro di Sacco è una compagnia teatrale professionale fondata nel 1985. Ha sede a Perugia dove gestisce uno spazio teatrale agibile nel centro storico della città dove si svolgono molte delle sue attività, rassegne, incontri, laboratori.

Produce spettacoli, eventi site specific, progetti europei, festival, progetti speciali.

Ha sempre creduto che glocal fosse un concetto significativo proprio per riconoscere l’unicità e la specificità di un luogo, un’idea, un progetto.

Dalla sua fondazione cerca di trovare una corrispondenza in una regione difficile, chiusa, isolata, trovando però altresì le stesse difficoltà, chiusure, isolamento anche in altri luoghi e in altri spazi di questo nostro piccolo paese teatrale, sempre più al margine dei processi culturali, della relazione con il pubblico, apparentemente sempre più richiuso a riccio dentro se stesso, incapace di fare “squadra” politico-culturale anche nel tempo della più grande crisi che il nostro sistema paese abbia mai attraversato.

Continua, comunque, a sognare.